mi chiamo fuori

Mi chiamo fuori.
Per starci dentro.
Anzi, mi chiamo da fuori.
Perché è fuori che voglio stare.
In quel fuori che è più dentro del dentro.

In questo periodo ho tenuto due laboratori e portato in scena uno spettacolo. Il primo laboratorio era composto da persone giovani,
il secondo comprendeva persone che andavano dai 12 agli 82 anni.
Il primo l’ho tenuto in teatro, il secondo in un eremo ed era residenziale. Domani inizierà il terzo. Lo spettacolo invece l’ho fatto all’aperto, all’interno di un incantevole teatro romano.

Persone presenti nello stesso tempo e nello stesso spazio, relazioni, comunità momentanee che si formano e si dissolvono nello spazio di qualche giorno o di un paio d’ore.

Come tutti ho le mie idee riguardo quello che sta accadendo. Anzi, per essere onesto, dovrei piuttosto dire che ho le mie sensazioni o percezioni o intuizioni. Poco scientifico, lo so. Ma spero che non me ne vogliate; d’altronde neanche la scienza è sempre scientifica.

Il mio canale d’accesso privilegiato alla vita è sempre stato il “sentire”. Forse perché già da piccolissimo mi è successa una cosa enorme che la mia ragione non riusciva in alcun modo a contenere, tantomeno a comprendere. Allora è come se avessi messo in moto quello che avevo a disposizione. Per non soccombere, ovviamente. Qualcosa a cui potessi affidarmi. E a quell’età, non disponendo né di una razionalità adeguata né di una facoltà di analisi sufficiente, non potevo far altro che affidarmi a ciò che sentivo.

Da lì a finire in teatro è stato un attimo. Ho riconosciuto un vocabolario simile al mio. Ho trovato un luogo in cui il modo di “ragionare” produceva effetti visibili e tangibili.

Devo essere onesto.
Per come vivo il mio lavoro – che a definirlo solo “lavoro” gli faccio un gran torto – non mi sento escluso dalla società o cose simili.
Non mi sento l’artista isolato e maledetto, figura certo affascinante ma quanto mai fuorviante. Mi sento invece al centro esatto della società. E mentre lo penso, e mentre lo scrivo, sorrido perché sento già il brusio in sala “che mattacchioni gli artisti… sempre con la testa tra le nuvole… eterni bambini che non vogliono accettare
la realtà!”

La realtà.
Qual è la realtà?
Domanda lecita, direi.

Sicuramente è lecita all’interno di due mondi apparentemente agli antipodi che, manco a dirlo, si toccano: il teatro e la fisica quantistica. Entrambi, il primo da millenni e senza poter addurre prove, la seconda recentemente e con dati a sostegno delle sue tesi, dicono che non esiste una realtà oggettiva.

– Ti vedo contento oggi… cos’hai?
– Sono innamorato!
– Ah ecco perché ti sembra tutto bello. Eh ma la realtà…


Di questo argomento ne parlo durante uno dei miei spettacoli. Ed è uno degli argomenti che mi appassiona di più. Perché, seguendo la logica di quelli che “eh ma la realtà…” dovremmo dedurre che la realtà è una cosa oggettiva e tendenzialmente brutta. Dovremmo dedurre che quando siamo innamorati e ci dicono “eh ma la realtà…” sostanzialmente ci stanno dicendo “sì ok, adesso a te sembra tutto bello perché non vedi le cose come stanno, perché non vedi la vera realtà, perché fantastichi e vedi una realtà che non esiste se non nella tua testa… ma non appena ti sveglierai… non appena finirà l’innamoramento… tornerai con i piedi per terra
e allora sì: vedrai come stanno veramente le cose!”

Di nuovo sorrido.
E pongo una semplice domanda.
Chi l’ha detto?
Dove sta scritto?
Qual è la legge fisica che mi dice che la “vera realtà” è quella che vedo quando non sono innamorato mentre quella che vedo da innamorato è solo una mia fantasia?

Seconda domanda.
E se fosse l’esatto contrario?
Se la realtà più vera fosse quella che vedo quando sono innamorato?
Se la lente attraverso la quale vedere le cose nella loro più intima essenza fosse proprio l’amore?

Ci penso spesso.
E penso anche a cose buffe.
Penso ad esempio a come cambiano i colori della natura quando a guardarla è un innamorato o un poeta o lo scemo del villaggio o un bambino o un vecchio o chiunque, per un motivo o per l’altro, sia innamorato. I colori diventano più vivividi. Lucenti.
Come se cadesse la pellicola che li rendeva opachi e spenti.

Tutto è uguale a prima e contemporaneamente diverso.
Cosa cambia?
Qualcuno forse, a mia insaputa, cambia la scenografia?
No: cambia lo sguardo.
La realtà è la stessa ma prima la vedevo in un modo e ora in un altro.

Ecco, io penso – senza poterlo né volerlo dimostrare – che la vera realtà sia più simile a quella che vede l’innamorato che non l’indifferente. Che lei, Sua Maestà la Realtà, sia sempre lì ma che, nonostante ci stia continuamente davanti agli occhi, la vediamo solo in alcuni momenti o durante alcuni periodi della nostra vita.

Mi chiamo fuori dai social perché lo sguardo che essi producono sulla realtà mi fa stare male. Uno sguardo che fa della realtà qualcosa di ancor più brutto rispetto a quello che ne fa lo sguardo dell’indifferente che ti sfotte perché sei innamorato.

Non ho mai pensato che gli strumenti che l’essere umano utilizza siano il problema. E non lo penso neanche ora. Penso solo che, in questo momento storico, i social non fanno per me. Ci ho provato in tutti i modi. Mi è piaciuto tantissimo, mi sono divertito un sacco e soprattutto, da questo magma incorporeo, si sono materializzati incontri con persone straordinarie che altrimenti non avrei mai conosciuto. Per non parlare poi dell’incontro che mi ha conferito gli occhi dell’innamorato e che mi ha cambiato la vita.

Come non essere grato ai social? Lo sono. Davvero molto.
Ma da due anni a questa parte sta avvenendo qualcosa che io non riesco in alcun modo ad affrontare attraverso i social.

Ed ora faccio outing.
Io non leggo tutte le informazioni allo stesso modo. Leggo con maggiore attenzione quelle affini a ciò che sento, percepisco, intuisco. Sicché articoli, dati, numeri e grafici non sono per me fonte di conoscenza perché, sempre col sorriso sulla bocca e stavolta pure col berretto a sonagli in testa, mi fido più del mio apparato conoscitivo che non di tutto il resto. Mi fido di più di ciò che mi ha salvato la vita che non dell’opinione di persone con le quali non posso interloquire vis à vis, nello stesso spazio e nello stesso tempo.

Non escludo in alcun modo di potermi sbagliare, e magari anche di molto. Ma, come si dice, preferisco commettere un errore mio,
del quale poi eventualmente rispondere, piuttosto che sbagliare per interposta persona.

In questo post non dirò niente di ciò che penso riguardo la folle giostra dentro la quale vortichiamo da due anni. Non toccherò i temi caldi, come si suol dire. E se non lo faccio è per una ragione molto precisa, ragione che tenterò di sviluppare all’interno del mio prossimo spettacolo raccontando una storia che, a mio modo di vedere, ha molto a che fare con tutto quello che sta accadendo.
Esprimerò invece un giudizio da uomo di teatro…

Questa storia fa acqua da tutte le parti.

Scritta male, disorganica, incoerente, piena di buchi narrativi, recitata molto male. Non riesco a fidarmi di nessuna delle tracce narrative che vanno per la maggiore. Ogni tanto scorgo dei brandelli di un copione che mi sembra scritto molto bene. Ma accade raramente. Sempre più raramente.

Lo strumento dei social non mi offre quasi niente di significativo e, nella maggior parte dei casi, mi fa solo stare male. Cosa che non accade in alcun modo se parlo con qualcuno di persona. Indifferentemente dal fatto che la pensiamo allo stesso modo o meno.

E lo ripeto perché questo, per me, è il fatto centrale: indifferentemente dal fatto che la pensiamo allo stesso modo o meno.

Questo è quello che mi è successo quest’estate, attraverso incontri avvenuti grazie al pretesto del teatro, che siano stati laboratori o spettacoli. Questo, sì, mi aiuta ad orientarmi. E mai, letteralmente mai, uno scambio di idee o di sensazioni mi ha ferito o offeso.

E spesso, sempre più spesso, ho pensato:
“Se ci incontriamo e parliamo tutto è ancora possibile”.

Pensiero che non riesco a formulare quasi mai leggendo quello che scrivono persone sedute davanti ad uno schermo. E tra queste comprendo me stesso. E in quel “quasi mai” sta tutta la relatività di ciò che dico. Quasi mai nel senso “a volte sì”, quasi mai nel senso che ogni tanto leggo parole degne di ogni attenzione, quasi mai nel senso che, probabilmente, sono io a non riuscire a discernere e a trarne il meglio.

No, non è un post per dire:
“Abbandono i social addio ricordatevi di me!”

È un post dedicato soprattutto a persone che conosco, a persone che, pur non conoscendo, mi sembra di conoscere e a persone che magari conoscerò. Sono estremamente grato ai social e confido nel fatto che un giorno tutto questo diventerà uno strumento utile ad avvicinarci e non ad allontanarci.

Non abbandono i social ma abbandono l’utilizzo che ne ho fatto fino ad ora: ovvero quello di un innamorato disperato che cerca di dire e di comprendere. Nobili tentativi che però, devo ammetterlo, ultimamente sono dolcemente naufragati.

Dunque resto.

Resto ma mi chiamo fuori.
Resto e ogni tanto vi chiamerò fuori.
Resto per chi conosco.
Resto per chi non conosco ma mi sembra ci conoscere.
Resto per chi conoscerò.
Resto in silenzio.
Resto ma alzo bandiera bianca.
Resto ma mi arrendo, con un inchino.
Resto e spero di potervi dare presto un appuntamento
per incontrarci nel mio social preferito: il teatro.

Resto e magari prima o pi riuscirò a convogliare tutti i fili su cui cammino verso un sito. Un sito web o – perché no? – un sito nella sua accezione originaria: luogo, posizione, territorio, ambiente, area, zona, località, posto, spazio.

Infine, per dirla con il titolo del primo, e a dir poco claudicante, testo teatrale che ho scritto: Resto Amleto.
Resto nel dubbio.
E, nel dubbio, resto.


grazie e a (p)resto,
Vostro Funambolo di Quartiere


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io ho visto

Luglio 2001.
G8 di Genova.
Dal mio diario.


Giovedì
Partiamo da Milano.
Treno o macchina?
Il piano di avvicinamento è geniale: fino ad Arquata Scrivia con la macchina, poi trenino fino a Bolzaneto, poi autobus fino a Genova.
Perfetto.
Arriviamo ad Arquata e troviamo parcheggio proprio difronte alla stazione.
Perfetto.
Scendiamo. Cincischiamo un po’ intorno alla macchina: zaini, sigarette, documenti… polizia!
Documenti.
Carta d’identità, patente, libretto, mancata revisione, multa, 250.000 lire, ritiro del libretto.
Perfetto.

Mentre i poliziotti compilano il verbale parliamo un po’ con loro. Sono tranquilli, gentili. Facciamo loro i complimenti perché si sono comprati proprio una bella macchina. Azzurrina, con una striscia laterale bianca. Mi dicono che è stata un’occasione: Chilometri zero! Ridiamo. Ridono.

A forza di scherzare ci distraiamo tutti quanti e nessuno, compreso me, si accorge che mi riprendo il libretto e lo rimetto in macchina.
Sarà che siamo in clima noglobal ma la multa non mi fa né caldo né freddo. Sono invece contento di aver iniziato i tre giorni con un rapporto diretto con i poliziotti.

Da quando ho letto Pasolini ho capito: “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti io simpatizzavo coi poliziotti perché i poliziotti sono figli dei poveri”. E spesso, nelle discussioni, tento di difenderli dallo stereotipo del “fascista bastardo . Mi sembra giusto. E questi due me lo confermano.

Trenino Bolzaneto-Genova. Vagoni undici. Passeggeri due: io e il mio amico. Non c’è neanche il controllore. Mi viene il dubbio che non ci sia neanche il conducente.

Bolzaneto.
Sembra un paese. Tranquillo. Poche persone. Due vigili. Ma è un paese o un quartiere di Genova? Una ragazza ci consiglia autobus e fermata. Arriviamo a Genova, al “matitone”. La manifestazione è dall’altra parte della città. È quasi impossibile raggiungerla per via della zona rossa. È già tardi. Ma noi siamo pur sempre dei signori.
Taxi!

Il tassista ci lascia praticamente dentro al corteo… mai arrivato ad una manifestazione in taxi! Mi vergogno un po’. La cosa non mi sembra proprio da sinistra. Forse una volta sceso dovrei prendere un sampietrino e tirarlo sul parabrezza del taxi. Opto per una scelta più diplomatica: scendo con il pugno alzato.

Proprio dove la manifestazione gira vedo il primo schieramento di polizia. Tenuta antisommossa. Mi sforzo di pensare ai due poliziotti di Arquata Scrivia e a Pasolini. Anche se questi sembrano proprio cattivi. Mah! Sarà l’abbigliamento.

Sto un po’ lì a guardare. Improvvisamente un gruppo di una ventina di manifestanti esce di corsa dal corteo in direzione dello schieramento. Non hanno né pietre, né bastoni, né caschi. Mentre corrono ridono. Sembra una via di mezzo tra uno scherzo e una provocazione. Poi qualcuno comincia ad urlare: “Un avvocato! Chiamate un avvocato! Ne hanno preso uno!” Un avvocato?! Addirittura! Mi viene da sorridere, mi sembra un po’ un’esagerazione.

Arriva un signore con i capelli grigi e gli occhiali. Porta una maglietta gialla con su scritti due numeri di telefono. Sono i numeri che devi fare se ti pigliano. Ma il ragazzo l’hanno già lasciato andare. La manifestazione prosegue. Moltissime persone, slogan, canti, bandiere… una manifestazione.

La sera andiamo in piazzale Kennedy.
Un grande piazzale con il palco, alcuni stand, in riva al mare. In fondo i container che ci dividono dalle forze armate. Mi torna alla mente la guerra civile tra Giulio Cesare e Pompeo quando, a Durazzo, i due eserciti, entrambi romani, si trovarono per un mese uno ad un palmo dall’altro. Molti si conoscevano. Al di qua e al di là della trincea, soprattutto di notte, si parlavano. Molti attraversavano la trincea per andare dall’altra parte. Fu l’ultimo momento utile per fermare una guerra che non si fermò. Ma stai calmo, non sei in guerra.

Comincia a piovere. A piovere seriamente.
Ci avviciniamo al bancone di uno degli stand e… birra, birra, birra. Lo stand è sponsorizzato dalla Heineken, come Umbria Jazz. Qualcuno comincia a suonare i bonghi. Non se ne può più dei bonghi. Ma questa volta vanno benissimo. Sono inebriato dalla birra e dalle persone che ballano. Mi viene voglia di spogliarmi. Mai avuto un desiderio del genere in pubblico. In mancanza del coraggio c’è la pioggia. Esco. E mi bagno. Piove che Dio la manda e speriamo che la mandi buona. Penso che va bene così. Che basta lasciarsi bagnare. Alle prime gocce un po’ di resistenza. Spalle strette, tese, occhi socchiusi. Ma poi, va bene così.Vado nell’altro stand. Qui sembra un po’ più Festa dell’Unità. Questo è un luogo che riconosco. Provo qualcosa di simile e quando mangio in un Mac Donald’s in una città straniera. Poi prendo un panino e cambio decisamente idea!

Siamo ospiti da un nostro amico che vive a Genova. Andiamo a casa. Lui è stanco. Noi due decidiamo di andare a vedere il Carlini, il posto dove dormono le tute bianche. “Eh ma è tardi. Il Carlini è dall’altra parte della città. Come facciamo?”
Continuiamo a fare i signori.
Taxi!

Difronte al Carlini c’è un baracchino. Piadina con salsiccia tanto per restare in clima Festa dell’Unità. Ci facciamo un po’ di problemi per entrare. Una ragazza in piazzale Kennedy ci ha detto che all’entrata controllano i documenti, che puoi entrare solo se dormi lì, che hanno paura degli infiltrati della polizia. Allora ci accordiamo su qualcosa da dire nel caso ci fermino, come prima di entrare in una festa ad inviti o in una discoteca presidiata dai buttafuori.
“E se dicessimo semplicemente la verità?”

Entriamo. Nessuno ci chiede niente. Mi accorgo che ormai per me entrare in un luogo senza dover mostrare qualcosa che mi identifichi è diventata un’eccezione. E l’eccezione, com’è noto, conferma la regola.

Un velodromo. Ovale per le biciclette, ovale in tartan per i corridori, ovale in erba per le tute bianche. La luce è quella degli stadi illuminati di notte per una partita. C’è una parte degli spalti coperta da un grande tetto in cemento, credo si chiami tribuna. I gradoni sono pieni di ragazzi dentro ai sacchi a pelo: i rifugiati dalla pioggia. Al centro c’è una grandissimo tendone bianco, intorno decine di tende da campeggio. Scendiamo. Ci sono due ragazzi senza maglietta, sotto la pioggia, che operano lavori di scolo. Facciamo il giro della pista. Da ragazzo ci correvo sul tartan, ora ci cammino e vorrei sedermici.

Qui gli atleti non si sono allenati a correre, ma a camminare, piano, a opporre resistenza, ad avanzare, piano, non in circolo ma diritti, a sfondare, piano, ma sfondare. Qui, nel tartan, il cronometro si ferma non appena tocchi il traguardo, domani molti saranno attaccati al traguardo ma il cronometro si fermerà solo dopo averlo oltrepassato. Anche solo di un metro. Qui se vinci ti mettono sopra un podio, domani chi vince va in carcere.

Entriamo all’interno del tendone. Una distesa di persone sdraiate a terra. Molti dormono. Sembrano un esercito prima della battaglia. Sarà la luce azzurra filtrata dal tendone, sarà che centinaia di persone dormono e sognano nello stesso luogo, saranno le vibrazioni delle fasi rem che si incrociano, sarà il suono morbido delle parole di chi ancora non dorme, forse sarà che tutto questo ha qualcosa di molto simile ai racconti di chi ha vissuto la guerra, simile all’espressione dolce di alcuni vecchi che ti dicono “c’era la guerra ma si stava bene”, sarà che sono uno sbarbato in cerca di emozioni, ma quello che vedo ora ha un solo nome: Bellezza.

Mi dico, senza nessun dubbio, che domani sarà una bella giornata, che da bene non può che nascere bene.

Venerdì
Saranno le una. Siamo in un appartamento in una zona centrale. A due passi da piazzale Kennedy. Ci affacciamo alla finestra. Alla sinistra, da una traversa, esce una nuvola di fumo nero. Sotto di noi ci sono i Black Bloc. Uno di loro si avventa con una pala su di una macchina. Altri cinque o sei corrono a fermarlo. Poi avanzano fino all’incrocio. Da lì cominciano a tirare pietre contro uno schieramento di polizia che non riesco a vedere. Scendiamo in strada. Quindici ragazzi vestiti di nero. A cento metri la polizia dotata di carro armato. Mi avvicino. Sono in mezzo ai Black Bloc. Ragazze e ragazzi molto giovani. Mi allontano e una signora all’angolo della strada ci chiede di fermarli. Intanto è partita la carica. Ci voltiamo. Il tempo di capire. Correre. La signora corre e urla: “Dove devo andare?”. Corriamo. “A casa, signora, torni a casa sua!”

E mentre corro mi chiedo perché scappo, penso che potrei fermarmi e alzare le mani, io non ho fatto niente, lo giuro. Lo giuro, ma intanto corro perché quella cosa che ho alle spalle e che mi insegue, anche se non ho fatto niente, fa paura. Prendiamo una traversa e saliamo delle scale. Poi riscendiamo. Siamo nel viale che costeggia il mare, duecento metri più avanti, piazzale Kennedy, la zona franca, il punto di incontro di tutti i manifestanti. In lontananza si vede l’imponente schieramento della polizia. Da una curva dietro di noi spuntano sei o sette camionette della polizia ad una velocità impressionante. La gente fa appena in tempo a salire sui marciapiedi. Uno accanto a me, altrettanto veloce, tira delle pietre contro le camionette. Le pietre rimbalzano sui vetri. Ho paura che mi colpiscano. Decidiamo di allontanarci. È già tutto fuori controllo, si sente. Cerchiamo un punto tranquillo che ci permetta di fuggire facilmente. Guardo la spiaggia dove c’è un piccolo molo e penso che se succede qualcosa potremmo andare lì. Poi ci mettiamo in cima ad una salita parallela al viale. Alla nostra sinistra c’è il mare, più avanti piazzale Kennedy. La polizia fa irruzione nel piazzale, nella zona franca. I manifestanti scappano. Uno di loro corre sul molo. Ho un brivido, come se aver pensato di andare lì equivalesse ad esserci in questo momento. Sei poliziotti inseguono il ragazzo, lo fermano, è a terra, lo picchiano, manganelli, calci, lui è a terra, fermo, tanto tempo, troppo tempo, lo picchiano, ancora. Un altro si è tuffato in mare. Nuota scoordinato, le onde lo ributtano verso la spiaggia. Un poliziotto si tuffa con tanto di manganello e casco e lo insegue a nuoto. La foga di chi insegue è sensibilmente maggiore di quella di chi fugge. Lo schieramento di polizia avanza ed arriva vicino all’imbocco della salita dove ci troviamo noi ed altre quindici persone. Quattro o cinque ragazzi, sotto, sono davanti allo schieramento e insultano i poliziotti. Il grosso dei manifestanti si è già allontanato. Noi siamo lì, a guardare. Nessuno di noi è armato, non ci sono bandiere, non ci sono gruppi. Quindici persone che guardano e occupano il suolo pubblico. In un istante parte la carica. Contro di noi. Correre. Ma cazzo non ho fatto niente, lo giuro! I poliziotti ci vengono addosso da sotto, di corsa. Questa volta però non penso neanche di fermarmi, sento chiaramente, come se fossi un animale, che non esiste ragione ma solo violenza, sono saltate tutte le regole e con loro il mio diritto di camminare su questa terra che evidentemente è di qualcun altro, non certo mia. I ragazzi che insultavano i poliziotti vengono lasciati in pace. Correre. La domanda è sempre la stessa: “Dov’è che non ci sono casini? Da dove si può passare?”. Da nessuna parte. Scontri ovunque e soprattutto schieramenti di polizia che impediscono di scendere. Hanno spaccato la città in due.

“Scusi dove si può andare per stare tranquilli?”
“Te ne devi andare affanculo perché ci avete rotto i coglioni. Se non ti levi ti sparo!”

Il poliziotto lo dice puntandoci il lancia-lacrimogeni addosso.

Troviamo un ARCI aperto.
Fuori si gioca a bocce, dentro si gioca a carte. Stiamo un po’ lì.

Lì è tutto normale. Seguono gli scontri alla televisione e li commentano come si commenta la televisione, come qualcosa che non esiste. Ma come può essere? Lì fuori c’è l’inferno! Qui dentro sembra tutto una partita di calcio. Dove ho vissuto fino ad ora? Cosa devono essere allora le guerre che vedo in televisione, realmente? Su cosa si basano le mie idee? L’opinione pubblica su cosa opinioneggia? Ho paura di uscire dall’ARCI. Ho paura degli scontri, della polizia, ho paura di uscire da lì ed entrare in una “trasmissione” nella quale fanno di me ciò che vogliono.

Poi torniamo in piazzale Kennedy. Lungo la strada ci dicono che un ragazzo è morto. Ora è tutto diverso. Torniamo a casa. Accendiamo la televisione. Guardo le immagini, il montaggio, sento i commenti, guardo le facce pulite dei commentatori. Questa volta non mi fregate bastardi! Questa volta ci sono ed ho visto.

Io ho visto un poliziotto fare con la mano il gesto di “vaffanculo” sporgendosi dalla camionetta in corsa. Io ho visto un gruppo di dieci persone assolutamente innocue avanzare a mani alzate. Io ho visto la polizia sbatterle al muro e perquisirle. Io ho visto più di una volta gruppetti di dieci o quindici Black Bloc lanciare pietre contro imponenti schieramenti di polizia. Io ho visto i poliziotti non fare assolutamente niente se non avanzare a piccoli passi, abbozzare una carica e poi fermarsi dopo pochi metri. Io ho visto questa stessa cosa a cento metri da una caserma di polizia. Io ho visto via Casaregis colpita dai Black Bloc. Una via assolutamente centrale e controllabile. Io ho visto e sentito un elicottero volare costantemente sopra Genova. Io ho immaginato che da lassù sarebbe stato semplice coordinare gli spostamenti della polizia. E così è stato. Ma con uno scopo assai diverso da quello che immaginavo.

Ed ora io vedo la televisione raccontare un’altra storia, altri scontri, altre cause-effetti, la vedo non dire la verità.
E urlo: Non è vero, non è vero, non è vero!!!

Poi le foto del ragazzo morto.
Gli hanno sparato.

Ora tutto è diverso.

Ora tutto è diverso.

Poi il dibattito di Porta a Porta. Fini cita la frase di Pasolini. Ho un brivido. Mi sembra che tutto vacilli. Bertinotti ma come fai a stare seduto? Perché non ti alzi e urli? Ecco, forse è per questo che non sono un politico. Non riesco a stare seduto. Poi penso che se Bertinotti si agita, Fini e l’opinione pubblica lo fottono. Allora penso che è bravo a stare seduto. Fatto sta che io non ci riuscirei.

Ora è tutto diverso.

Ma la televisione non molla. Monta i servizi in modo che le persone entrino in un dibattito assurdo.

“Certo, è morto un ragazzo, ma quella del poliziotto era legittima difesa!”
Quale legittima difesa? Cosa avrebbe dovuto fare quel ragazzo sul molo pestato con una violenza inaudita da sei poliziotti? Sparare? Come vengono addestrati i tutori della legge? Qual è il limite oltre il quale è consentito sparare e uccidere?

“Eh ma sono uomini pure loro!”
No! Loro sono e devono essere uomini speciali, uomini che mantengono il sangue freddo e la calma, perché sono armati!

“Comunque questi Black Bloc hanno devastato la città!”
Come ci si può permettere di parlare di questo di fronte alla morte di una persona? Come può permettersi la televisione di mandare servizi in cui si parla dell’uccisione di quel ragazzo seguiti dalle interviste di persone che hanno avuto la macchina o la vetrina sfasciata?

Cos’è diventata la proprietà privata? Cos’è diventata?!?!

Non riesco neanche a piangere.
Lo farò nei giorni seguenti.
In maniera incontrollata, senza un motivo apparente ma con tutti i motivi di questa terra.
Lo farò al telefono con mia madre.
Erano anni che non mi sentiva piangere.

Basta televisione.
Saliamo sul terrazzo che è in cima al palazzo. Si vede Genova. È notte. In strada sembra tutto tranquillo. In cielo, invece, c’è ancora qualcuno che è molto agitato: l’elicottero della polizia. È ancora lì. Quel maledetto suono nelle orecchie. Non ne posso più! Ormai ce l’ho nei nervi, ormai penso e mi muovo al ritmo di quelle pale. Ma non la vedi da lassù la città, maledetto? Dino Campana è riuscito a vedere Genova sollevarsi e tu, che sei sollevato, la schiacci. Cosa hai fatto oggi da lassù? Quali ordini hai impartito? Perché non ci hai protetti? Chi c’è su quell’elicottero? Non dico la pietà, ma il buon senso lì dentro non ce l’ha nessuno? Un dubbio di un essere umano, un momento in cui dici, magari violando gli ordini, che “lì no, non ci sono disordini, non andate, quella è gente pacifica, non stanno facendo niente, lo giuro.”

Penso ai poliziotti di Arquata Scrivia, al ragazzo morto, alle cariche, ai Black Bloc, alla signora che ci chiedeva di fermarli…

Penso, malgrado tutto, quello che ho sempre pensato. Che ci fottono come vogliono, che ci fottono tutti, che sono invisibili e che quando rischiano di essere visti fanno di tutto perché scoppino degli scontri, perché scoppi una guerra. Mi ci gioco la testa che faranno di tutto per dimostrare che i manifestanti violenti erano per lo più dei drogati e che i poliziotti violenti erano solo alcune mele marce.

Penso, infine, prima di andare a dormire, che non un solo istante durante questa giornata ho pensato al vertice degli otto, alla globalizzazione, alla povertà di altri paesi.

Ci sono riusciti a parlare da soli.
Molti, compreso me, si sono indignati del fatto che il vertice non sia stato interrotto neanche dopo la morte di una persona.

Ora penso che forse quella morte era l’unico modo perché potessero continuare a parlare. Indisturbati.

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odio le cose interessanti

Qualche giorno fa sono rientrato in teatro.
Ho provato una sensazione alla quale non riuscivo a dare un nome.
Ieri ci sono tornato di nuovo, sto curando la regia e la drammaturgia di uno spettacolo.
E di nuovo la stessa sensazione.
Poi, tornando a casa, m’è sembrato di capire.

In questo periodo in cui tutto sta cambiando, sono entrato in un luogo immobile nel tempo. Ho avuto la sensazione che nulla di ciò che sta accadendo l’abbia toccato. Mi è sembrato di tornare indietro.

Una macchina del tempo.
Questo è ora il teatro.
Ma è una macchina rotta perché non puoi scegliere di andare nel futuro: puoi solo tornare nel passato.

Mi sono sentito a disagio. Soprattutto considerando i tanti post che leggo in Twitter o in Facebook di persone che tornano a lavorare in teatro e sono felicissime. Ci mancherebbe. Certo che lo sono, le capisco benissimo; io stesso sono felice per loro. Soprattutto se si tratta di colleghi che conosco e dei quali stimo e ammiro il lavoro. Alcune di loro sono persone letteralmente straordinarie. Eppure.

Finalmente ero rientrato in teatro, “finalmente” – pensavo – “si ricomincia a lavorare”. E mi tornavano alla mente foto e post entusiasti di vari artisti. Eppure non ero affatto felice. Perché?

C’è anche da dire che io non ho mai amato tutta la retorica del fascino del teatro… e le assi del palcoscenico… e il velluto del sipario… e la polvere… e le luci del camerino… e tutto quel corollario di aspetti romantici che, personalmente, mi fanno apparire il teatro come uno di quei musei in cui devi entrare in punta di piedi, bisbigliando, schiacciato dal peso di un’idea di cultura che se anche non ti piace devi comunque dire “mmmh… interessante…”

No, non ho mai amato il teatro in quanto idea romantica, in quanto luogo in cui rifugiarsi perché fuori nessuno ti capisce. L’ho amato invece come strumento per cercare di entrare in relazione con chi fuori non ti capisce. O con chi, magari, sei tu che non capisci.

“Strumento”. O “veicolo”. Queste sono le parole. Del teatro in sé non mi è mai interessato nulla. Così come non mi sono mai piaciuti gli spettacoli che mi richiedevano una cultura teatrale per essere apprezzati. Dopodiché una cultura teatrale è meglio se ce l’hai, non è questo il punto. Dico solo che non dev’essere necessario averla perché uno spettacolo ti piaccia. Altrimenti mettiamo su un gruppo “Noi che capiamo il teatro”, ci facciamo gli spettacoli tra noi e morta lì.

Il teatro per me è uno strumento utile a migliorare la convivenza tra le persone. Per questo rientrando da quella porta, qualche giorno fa, non ho provato una bella sensazione. Perché la convivenza tra le persone sta subendo un forte cambiamento – anzi: l’ha già subito -, mentre quel luogo non si era mosso di un millimetro. Insomma, siamo su una montagna russa e ad entrare in un museo immobile e impolverato mentre stai facendo il giro della morte… non so… mi è sembrato di uscire dalla vita.

Ed ecco il paradosso. Ma non quello di cui parla Diderot (questa citazione l’ho messa solo per far capire che ho una cultura teatrale, ovviamente). Il paradosso è quello di un luogo fuori dalla vita quando per me è sempre stato un luogo per entrarci, nella vita.

Quello che dico non riguarda il luogo fisico, si capisce. Il luogo fisico mi rimanda però, concretamente, ad altro. Ad una concezione di teatro. Ad un modo di vederlo, viverlo, farlo. A quel tipo di teatro – e potremmo dire di “cultura” in generale – che non ho mai amato e che ora, come non mai, mi appare a dir poco fuori dal tempo.

Ho tenuto numerose lezioni/spettacolo per ragazze e ragazzi. Ogni volta che li incontravo, come prima cosa, sentivo il bisogno di prendere in giro il teatro. Anche solo per dire loro che “capita a me che lo faccio, figuriamoci a voi!” Allora facevo il verso a quelli che entrano agghindati, a quelli che si guardano attorno per rifornire il proprio bagaglio di gossip da spendere il giorno dopo a suon di “ma sai chi c’era?… e sai con chi era?…”, facevo il verso a quelli che entrano con l’espressione “sono una persona di cultura voi chi cazzo siete?”, a quelli che se anche durante lo spettacolo si sono annoiati terribilmente, fino al punto di assopirsi, all’uscita, mentre si sistemano la sciarpa o mentre si accendono la sigaretta, continuando imperterriti ad osservare chi c’era e con chi era, alla domanda “ti è piaciuto?” rispondono con un coltissimo “interessante…”

Io le cose interessanti le odio.
A me piacciono le cose che vengono a prendermi e mi sbattono via dalla poltroncina vellutata. A me piace quello che mi trasporta fuori dal teatro. Quello che mi fa dimenticare di essere in teatro. A me piace il teatro che distrugge ogni idea di teatro. Per semplificarla, da spettatore dico che non mi piace il teatro interessante: mi piace il teatro che s’interessa a me.

E tutto questo prima della pandemia. Tutto questo prima che ci ritrovassimo nel bel mezzo di un cambiamento epocale e, con ogni probabilità, antropologico. Figurati ora cosa mi può interessare di una cosa interessante!

Sono entrato in un luogo morto. Questo ho sentito.

Non so cosa si debba fare. Né come. Tanto meno so se io stesso sarò in grado di fare qualcosa. Ma di sicuro non voglio tornare alla normalità. Perché la normalità, ora, è un non-luogo. È il passato.
Un passato che nel giro di un anno è morto e sepolto. Penso che ora o si rinasce o non ci si sveglia più. E non parlo solo del teatro, parlo di tutto.

Per me il teatro non è mai stato un nascondiglio, né un luogo sicuro. Tutt’altro. È stato un luogo di esposizione, di nudità.

Ecco. Questo.
La nudità.
Ma non quella dei corpi.
Se è necessaria, anche, ci mancherebbe.
Ma anzitutto la nudità della persona.

Immagino una persona nuda dentro un museo. E quello che si toglie non sono gli abiti ma ciò che la identifica in quanto persona di cultura. E tutto quello che tocca – che siano statue o dipinti – prende vita. E quello che si toglie non sono gli abiti ma ciò che la camuffa. E tutto quello che tocca – che siano corpi o cuori – riprende vita.

“Ri-apriamo”
“Ri-partiamo”
“Ri-torniamo alla normalità”

Mh.
Sono sempre meno convinto di queste azioni.
Di queste reiterazioni.
Penso occorra avere il coraggio di seppellire ciò che, in verità,
è già morto.
Penso occorra ri-schiare.

“Apriamo i teatri!”
Certo.
Ma non per far entrare le persone: apriamoli per uscire.



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samuel

Mi sono svegliato piangendo.
Non mi capitava da tanto tempo.

Eravamo in macchina: io, te e Martino.
Ti riaccompagnavamo a casa.
Si è finiti a parlare della manifestazione.
Già, la manifestazione.
La prima volta l’abbiamo rimandata perché proprio nei giorni in cui si sarebbe dovuta tenere nella nostra città c’è stata un’impennata di contagi.
L’abbiamo rimandata perché una delle cose che volevo far vedere al mondo era che le persone giovani sono infinitamente migliori di quello che si dice e si pensa di loro.
Forse è sempre stato così.
Sicuramente è così in questi anni.
Lo so perché ho la fortuna di starci con i giovani.
E di starci in un modo straordinario: facendo teatro.
Li vedo.
Si lasciano guardare.
Perché si fidano di me.
E non si fidano di me perché faccio il teatro o perché posso offrirgli ricchezza e successo o perché sono particolarmente bravo.
Si fidano di me perché sentono che sono come loro.
Più vecchio, più rotto, più invischiato con l’insopportabile vita delle cose tristi, ma fondamentalmente come loro.
Mi annusano e si fidano.
Lo stesso faccio io.
E quel giorno, in macchina, ho sentito distintamente il profumo della tua anima.
Perdona questa frase stucchevole ma, credimi, è esattamente quello che è successo.
Vedevo il tuo sorriso dallo specchietto retrovisore.
Vedevo i tuoi occhi aperti alla vita.
Senza difese.
Sono rimasto folgorato.
Mi è sembrato di vedere un’anima appena arrivata in questo mondo dentro al corpo di un diciannovenne.
Avevi mantenuto stretto qualcosa dell’origine.
Non ci ho pensato due volte.
“Senti, Samuel, faremo questa manifestazione… ti va di esserci?
Ti va di scrivere qualcosa e poi di leggerlo in pubblico?”
“Ma cosa devo scrivere?”
Semplice, devi rispondere alla domanda: “Come stai?”
“Ok!”
Un paio di giorni dopo mi hai mandato questo testo:

Come sto?
In piedi.
Sto benino.
Purtroppo le grandi aziende o la gente con più soldi di noi ci comanda. Quindi c’è sicuramente gente che sta meglio di noi. Ma i soldi non fanno la felicità completa. Secondo me la felicità consiste nello stare bene prima di tutto con se stessi e con gli altri. Secondo me la vera potenza nel mondo, anche in questo momento, non sono i soldi ma è l’energia che ci lega, quell’energia che nel silenzio ci accomuna a tutti. L’energia che ci dona la vita. Dentro me sento un’energia illimitata. Sento un’energia che non dipende solo da me, ma anche da voi. E secondo me se riusciamo ad alimentare bene le nostre energie potremmo arrivare a fare grandi cose. E non parlo di pensioni, strade o cose che hanno a che fare con lo stato. Ovviamente sarebbe bello eliminare tutti i problemi che ha il nostro stato, ma purtroppo le mafie non ce lo permettono. Ma possiamo lavorare sull’amore che trasmettiamo a noi stessi e a gli altri. Parlando personalmente è l’unica cosa che mi tiene veramente in vita, oltre l’ossigeno e il cibo. Dobbiamo capire veramente cosa ci rende felici nella vita o finiamo ad essere tristi quando avremo una maggiore età. Comunque io sto bene, non mi è mancato mai nulla nella vita. Anche se potevo avere molto di più non mi lamento perché c’è tanta gente che soffre e che ha sofferto molto più di me. Mi piace essere empatico, vedo e sento tante persone tristi e non sono contento per questo. Cerchiamo di unire tutti le nostre energie in un canale positivo, vedrete che ne varrà la pena. Pace e amore


Ho pensato che avevo visto giusto: avevi mantenuto stretto qualcosa dell’origine.
Ti dissi che mi piaceva molto.
E poi, però, ti feci un’altra richiesta.
Ti dissi che m’interessava molto sapere come stavi tu.
Tu, personalmente.
Capisti esattamente la domanda e qualche giorno dopo mi inviasti questo testo:

Mi sento perso. Mi sento proprio abbandonato a me stesso. Sento una libertà interiore data dalla mia età probabilmente. Ma fuori di me c’è il caos, sento che appena ho un confronto con la realtà di questa città mi si smonta l’idea di mondo felice. Vedo che è difficile esporsi come persona sincera, perché le persone ti giudicano anche per come respiri. Vedo molti giovani che si perdono nel trovare un modo di approccio con i genitori. Vedo e sento tante mentalità chiuse e mi dispiace molto per questo. Mi mancano più sicurezze nella vita. Sto capendo che siamo pieni di incertezze. Sogno di non perdermi più in stupidaggini e cose superficiali, sogno di arrivare al fulcro della situazione e riuscire a convivere con l’inferno.

“Eccoci”, pensai.
Uno come te non poteva che sognare di riuscire a convivere con l’inferno.
Ti proposi di mischiare i testi e di farne uno unico.
Mi dicesti che l’idea ti piaceva.

Questa mattina mi sono svegliato piangendo perché ho un peso nel cuore.
Perché la tua morte, nella mia mente, richiama centinaia di altre morti.
Invisibili.
E poi perché mi sento come te, mi sento come i più giovani.
Mi sento incompreso.
Ma, essendo adulto, so che esiste la possibilità che sia io a non riuscire a farmi capire.
Allora, per onorarti, ho pensato di provare a farlo mettendo via vergogna e paura di essere frainteso.

Quello che voglio dire è molto semplice.
Caro mondo adulto, del quale faccio parte e con il quale condivido tutte le fatiche che ben sappiamo… non li stiamo vedendo. E vorrei urlarlo. Non li stiamo vedendo. Questa generazione di giovani è straordinaria. È contemporaneamente fragilissima e fortissima. Fragilissima perché vede il mondo crollare attorno a loro. Nessun appiglio. Nessun riferimento. Nessun rifugio. Fortissima perché ha sviluppato una sensibilità emotiva che non ha precedenti. E non lo dico in base a degli studi che ho fatto, lo dico in base a quello che vedo. Quelli della mia generazione una raffinatezza emotiva di questo tipo se la sognavano. Oserei dire una raffinatezza spirituale, mi si conceda il termine. Probabilmente quest’immagine farà a pugni con tante vicende delle quali si sente parlare in televisione. Invece dico che è perfettamente coerente. Un eccesso di sensibilità inascoltata, nel giro di un secondo, si può trasformare nella violenza più cupa. È un canto che non trova la strada e si trasforma in urlo muto e poi in violenza.

Piango perché dietro le loro azioni, in trasparenza, io vedo uno spirito che non trova casa. Piango per loro perché spesso vengono condannati. Piango per noi perché, condannando loro, condanniamo la nostra salvezza. E no, non sono cieco. E no, non sono buonista. E no, non penso che siano tutti angeli. Neanche per niente. Sarei un ipocrita se dicessi questo, viste tutte le volte che mi sporco le mani con le loro magagne. Il mio è, per forza di cose, un discorso di massima, con tutti i distinguo del caso. Ma se su centinaia di ragazze e ragazzi con i quali ho avuto che fare, tutti… e dico letteralmente tutti… li ho visti brillare… allora sento di poter fare un discorso di massima.

Piango, infine, per una questione strettamente personale.
Il teatro.
Il teatro per i ragazzi.
“Facciamogli fare un’attività ricreativa così almeno si sfogano e poi alla fine possono fare anche uno spettacolino”.
Non pretendo che tutti sappiano cosa sia il teatro.
Neanch’io lo so cos’è il teatro.
Però… e parlo almeno alle persone della città in cui vivo e che sono venute a vedere gli spettacoli che ho fatto insieme ai giovani… e parlo a persone comuni e parlo agli insegnanti e ai dirigenti e agli amministratori pubblici e ai politici e ai giornalisti e a chiunque sia venuto… se ancora pensate al nostro lavoro come ad un’attività ricreativa e al loro andare in scena come ad uno spettacolino… senza offesa: non avete capito assolutamente nulla. E la mia non è né una condanna né un insulto ma un invito: aprite gli occhi. Ora, subito, immediatamente. Perché se questi giovani non li vedete neanche quando stanno su un palco illuminati dai riflettori… allora nella vita, nella vita di tutti i giorni, tra i grigi e frettolosi impegni di noi adulti, non li vedrete mai.

Lo dico senza mezzi termini: dateci una mano ad aiutarli di modo che loro possano aiutare noi.
Io parlo del teatro, perché di quello mi occupo.
Ma è evidente che posso parlare allo stesso identico modo di musica, danza, pittura, scrittura, scultura…

Sono spiriti sottili.
Sono spiriti d’arte.
E per ogni atto deplorevole che compiono, guardate bene:
c’è un’anima delicata e preziosa che non sta trovando la strada.

Samuel,
mi perdonerai se ho sproloquiato.
D’altronde se, come avevo già in mente di fare, avessimo lavorato insieme… mi avresti sentito sproloquiare parecchio. Lo sanno bene i tuoi amici. Lo sa bene Martino, mio amato figlio e tuo caro amico, che ieri sera ti aspettava a casa. Avreste cenato insieme e oggi sareste venuti insieme alla manifestazione. Ed io non vedevo l’ora di sentirti parlare. Di osservarti attentamente. Anche se, perdona la presunzione, sapevo già che avrei visto un fascio di luce emergere dall’inferno. Sì, lo sapevo già.

Io non credo alla morte, Samuel.
Io credo alla vita.
E non ti parlo da religioso, ma da giovane adulto che tenta con tutte le forze di mantenere stretto qualcosa dell’origine.
Io credo che ora tu sia vita in altra forma.
Energia, come la chiami tu.
Bene, allora senti… ovunque tu sia… dacci una mano.
Ti prego.

Riccardo


P.S.
Quest’immagine è lo screenshot dell’articolo che Repubblica ti ha dedicato. La scritta in cima fa parte della pubblicità di un cartone animato, se non sbaglio. Per il resto ho tolto alcune parole del titolo dell’articolo e, insomma, il risultato finale mi sembra perfetto.

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sono stato io

Rinchiusi.
Rinchiuso.
In casa.
Ma anche fuori casa.
Non è strano che facciamo anche meno di quello che potremmo?
No.

Ci hanno dato una scusa per fare quello che da tanto volevamo fare: rinchiuderci. Eravamo già in affanno per trovare un posto nostro da difendere con un cancello e dentro al quale rinchiuderci.

“Quando mai?! Io volevo solo girare il mondo!”
Puoi girarlo anche da rinchiuso, il mondo.
Poi guardarlo da una finestra o da un finestrino, il mondo. E gli altri.
Puoi anche stare abbracciato ad una persona e restare rinchiuso.
E capitalizzare.

“Ma se non ho un euro!”
Puoi capitalizzare sentimenti, idee, passioni. Ti puoi capitalizzare. Un tempo i re si facevano seppellire con il loro oro. Oggi noi ci facciamo seppellire con tutti noi stessi dentro. Capitalizzati. Accumulati. Non sia mai che dopo la morte venga a bussarci alla porta il vicino di cassa.

Non ci hanno rinchiusi, volevamo rinchiuderci.
Sottilmente.
Impercettibilmente.
Anche se stavamo tutto il giorno fuori a lavorare. Perché anche quello era diventato un cancello. Forse il cancello per eccellenza. Rinchiuderci dentro quello che sapevamo fare, dentro la nostra esperienza, dietro il nostro curriculum. Così da poter rispondere, qualora ce l’avessero chiesto: “Guardi non so di cosa sta parlando: io stavo solo facendo il mio lavoro. Quello per cui mi sono preparato, quello per cui mi avete richiesto, quello per cui ora dovete pagarmi.”

Rinchiusi nei gruppi.
Nel branco.
E non nel branco animale che se anche è chiuso in se stesso è totalmente aperto alla vita. Rinchiusi come dice Salinger: “… e tutti fanno lega tra loro in quelle piccole sporche maledette cricche. Quelli della squadra di pallacanestro fanno lega tra loro, i cattolici fanno lega tra loro, i maledetti intellettuali fanno lega tra loro, quelli che giocano a bridge fanno lega tra loro. Fanno lega perfino quelli che appartengono a quel dannato Club del Libro del Mese!”

È passato più di un anno e forse potremmo dircelo senza vergogna: una parte di noi, tutt’altro che piccola, è stata contenta di essere rinchiusa. Di non avere più la bestia scalpitante da gestire.
La libertà.
Così imbarazzante. Così imbizzarrita. Così difficile da domare.
Quel nucleo vitale che ti strappa via da te stesso per portarti fuori. Fuori, preda delle intemperie, fuori, preda degli altri, fuori, preda del destino o del caso o di qualunque cosa in cui si voglia credere.

Il controllo.
Questo chiedevamo.
Sottilmente.
Silenziosamente.
Il suono rassicurante della porta che chiudi a chiave quando rientri in casa. In parte siamo stati grati a chi ci diceva di non uscire.
Avevamo una scusa per chiudere il mondo fuori casa.

Ormai non m’interrogo più su “chi” stia facendo “cosa” a noi.
Perché non ci sto capendo niente. M’interrogo invece sulla nostra disponibilità, nonostante tutto. Sul nostro essere, in fondo,
già pronti a tutto questo. In parte sul nostro desiderarlo.
Forse sul nostro volerlo.

Mi chiedo quand’è che abbiamo dato il primo giro di chiave alla porta. Difficile da rintracciare. Forse fa parte dell’essere umano da sempre. Sicuramente ha in sé anche qualcosa di giusto. Ma non così.
Non così tanto.

Forse, restando nei pressi dei nostri anni, il primo giro di chiave l’abbiamo dato quando, più o meno consapevolmente, abbiamo creduto che per salvarsi non occorra collaborare ma competere. Quando abbiamo cominciato a sognare di diventare i numeri uno. Quando la seconda “v” del verbo “vivere” si è tramutata in “nc”.
Ma non so. Faccio fatica ad essere sicuro riguardo aspetti così complessi.

E forse sto parlando a sproposito.
Forse sto ributtando sugli altri qualcosa che è solo mio. Un vecchio vizio di quando, pur di non vergognarsi di se stessi, si proietta sugli altri un proprio demone.

Allora forse sono solo io che volevo essere rinchiuso, costretto, ingabbiato, isolato. Forse sono solo io che, soprattutto all’inizio, pensavo “oh… un po’ di pace!” Forse sono solo io che ad un certo punto ho pensato che se fossi stato ricco magari andava benissimo così. Forse sono solo io che ho visto proiettata fuori di me una paura che era dentro di me: la paura di vivere. E chiudendola fuori, la vita, mi sono sentito al sicuro. Forse sono solo io che ho tirato un sospiro di sollievo: “finalmente si è fermato il treno!” Già, il treno.
Non l’aereo, non la nave, non l’auto, no: il treno. Il treno che,
a differenza del bufalo, come dice De Gregori, ha la strada segnata
e non può scartare di lato. Questa era la sensazione prima della grande frenata: di essere dentro un treno che correva su un binario sempre dritto ad una velocità che aumentava progressivamente.
E senza freno di emergenza. Tant’è che è dovuta esplodere una bomba sui binari per fermarne la corsa.

Apparentemente.

Perché non tutto è fermo.
Neanche per sogno.
La grande finanza va avanti.
Imperterrita.
Si adegua, si modifica, probabilmente era già pronta.
Qualcuno sostiene che è stata proprio lei a decidere tutto questo.
Io non lo so. Ma so che, se è stata lei a deciderlo, è perché aveva il potere di farlo. Mi hanno sempre insegnato che se qualcuno ha potere su di te è perché tu, quel potere, gliel’hai dato.

Dunque chi è stato?
Le banche, le lobby, le case farmaceutiche, i social network?
Poco importa perché chiunque sia stato ha utilizzato un potere che gli abbiamo conferito noi. Dunque: siamo stati noi.

“Ricominci a parlare degli altri?”
Scusa.
Hai ragione.

Sono stato io.

Ed ora mi manca l’aria.
Sono rinchiuso e mi manca l’aria.
Perché non siamo fatti per vivere rinchiusi.
Perché questa volta, per uscire, non vedo altra strada che affrontare la paura che è madre di tutte le paure: la paura di vivere. Di perdere il controllo. Di non essere più padrone di me stesso. Di non essere più in me. Di non potermi più riparare dentro di me ma di essere scaraventato fuori. Dato, offerto, strappato, sbranato, dilapidato.
Di non vedere più la vita come mia ma me stesso come suo.
Di smettere di difendere me e di cominciare a difendere lei.
Di appartenere.

Forse il primo giro di chiave l’abbiamo dato quando, insieme a Dio, abbiamo chiuso fuori casa e fuori da noi stessi il mistero, l’insondabile, l’immensamente più grande di noi.

Sì.
Sto cominciando a pensare che non stiamo vivendo una crisi sanitaria. Né economica. Né sociale. O meglio: stiamo vivendo tutte queste crisi insieme, il che trasforma la parola “pandemia” in “sindemia”. Ma forse il cuore ferito di questo immenso corpo è lo spirito. L’ineffabile. L’invisibile. Qualcuno lo chiama “anima”, qualcuno “coscienza”, qualcuno “intelletto”, qualcuno non gli da nome e qualcuno dice che non esiste. E se anche prendiamo per buona quest’ultima ipotesi, dico che stiamo vivendo la più grande crisi di ciò che non esiste e che, pur non esistendo, ci fa esistere.

È la paura di morire che non ci fa uscire fuori.
Ma è la paura di vivere che ci ha chiusi dentro.

“Ancora?!”

È la paura di vivere che mi ha chiuso dentro.

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incarnazione 23/2/21

Comincerò dalla data.

Oggi è un anno esatto dalla chiusura dei teatri.
Oggi è la scadenza della raccolta fondi per il mio nuovo spettacolo.
Oggi è il mio compleanno.

L’ultimo compleanno l’ho festeggiato in teatro. È stato un giorno straordinario. Tra il palco e la platea eravamo una sessantina di persone. Giovani, adulti, anziani. Era un giorno di prove. Stavamo lavorando ad uno spettacolo che avremmo messo in scena ad Aprile.
Il titolo sarebbe stato “2020”.
Il tema era l’Apocalisse.

Ovviamente non abbiamo potuto portarlo a termine.
Abbiamo però deviato il percorso del progetto e abbiamo convertito il tutto in un docu-film che s’intitola “DUEMILA-20 quando l’apocalisse fermò lo spettacolo sull’apocalisse”

https://www.youtube.com/watch?v=hBvHNOfybwQ&t=3637s

Inutile dire che cosa incredibile fu per noi apprendere, in quei giorni, quello che stava accadendo. Incredibile perché in parte già vissuto. Già vissuto perché era da Ottobre che lavoravamo su un’ipotetica Apocalisse. Ne parlavamo, la immaginavamo, tentavamo di metterla in scena. E poi, ad un certo punto, è arrivata. Fu come se il teatro fosse uscito dal teatro e noi ci fossimo trasformati da attori a spettatori dello spettacolo che stavamo preparando.

https://www.umbria24.it/cultura/storia-di-una-quarantena-cercavamo-lapoclisse-ed-e-arrivata

Quella giornata fu molto particolare.
Ricordo distintamente tre aspetti.

1- La sensazione che stessimo preparando qualcosa di molto potente. Qualcosa di cui non avevo il controllo. Qualcosa di fortemente collettivo. Solo ora riesco a spiegarmi la forza che si sprigionava dalle prove. In tutti i miei anni di lavoro non mi era mai capitata una cosa del genere. Neanche lavorando con professionisti. A tal punto che, il giorno stesso, dissi a tutti che non mi sentivo in grado di guidare quello che accadeva. Perché sentivo chiaramente che era più grande di me e che mi precedeva.
Ricordo poi il finale di quella giornata. Un’immagine.
Ricordo che pensai “questo dev’essere il finale dello spettacolo”.


2- La festa di compleanno che organizzarono per me.
Ognuno scrisse qualcosa. Qualcuno disegnò anche. Ricordo che me ne andai. Ma non fisicamente. Me ne andai pur restando lì, perché lì non riuscivo a starci. Era tutto troppo forte ed emozionante. Soprattutto le parole che mi rivolsero le ragazze e i ragazzi. Adolescenti con i quali lavoravo da due o tre anni e con i quali avevamo portato in scena già due spettacoli. Come per i due progetti precedenti, in scena ci sarebbero stati sia giovani che adulti.
E questa volta anche alcuni anziani. Ho conservato tutto quello che mi hanno scritto. L’ho messo in una scatola. Magari un giorno avrò il coraggio di andare ad aprirla e a rileggere le loro parole. Letteralmente irricevibili per quanto erano belle.

3- Il cielo.
Infine ricordo il cielo che vidi quando andai a riprendere la macchina al parcheggio. Mi fece un’impressione fortissima.
Ebbi l’impressione che stesse parlando, che volesse dirci qualcosa.


Ed ora è passato un anno.
Un anno che non ho le capacità di raccontare.

Allora, per non sbagliare, comincerò dalla fine: la raccolta fondi.

Non è facile chiedere aiuto. Per niente. È una fatica particolare che ti restituisce un senso di svuotamento. Ed è paradossale perché, in verità, quello che sta accadendo è che ti stanno riempendo.
Di affetto, di fiducia, di stima, di tempo. Tempo. È così che mi piace chiamare il denaro in alcune situazioni. Tempo che le persone hanno speso per lavorare, tempo che è stato loro ricompensato con il denaro, denaro che si trasforma in tempo che mi donano.

E tuttavia la sensazione che resta è quella dello svuotamento.
Quel tendere la mano è umiliante. E uso l’aggettivo “umiliante” nel senso etimologico di “humus”, ovvero “terra”. Ecco, mi sento a terra. Ma non abbattuto. A terra, semplicemente. E se da una parte
è strano sentirsi a terra in una società costantemente “up”,
dall’altra parte è estremamente naturale: da lì veniamo, lì torniamo.

L’argomento su cui sto lavorando è la storia di Gesù.
Ancora non ho la più pallida idea di cosa ne verrà fuori.
Davanti a me ho letteralmente il vuoto. Quello che so è che dovrò aspettare il momento giusto per dargli una forma. Ho imparato a lavorare in questo modo: aspettando che la sostanza reclami la forma di cui ha bisogno. E i tempi di questo processo dipendono solo in parte da me.

Nonostante quello che stia facendo in questo momento sia un tipo di lavoro squisitamente storico – letture, studio, ricerca – la cosa alla quale penso più spesso è una suggestione. Qualche giorno fa ho fatto una specie di video per ricordare la scadenza della raccolta fondi. Ovvero le 23:59 di oggi.

https://www.youtube.com/channel/UCMV4Ev6hzH0kE_AE5jdGdww

Non so come sia venuto fuori questo buffo video ma ad un certo punto appare una scritta: “La lotta tra un dio che ti disincarna e un dio che s’incarna”. Il primo dio è internet, il secondo è quello di cui parla Gesù. Ed è di questa lotta che vorrei parlare.

Non possiamo uscire, non ci possiamo incontrare, non possiamo stare insieme, non possiamo toccarci. A causa della pandemia, certo.
Ma.
Ma.

Quando è iniziata esattamente, questa pandemia?
“Beh, l’hai detto tu stesso: il 23/2/20”


Sì, la pandemia intesa come contagio da covid è iniziata nel 2020. Ma quella di cui parlo è un altro tipo di pandemia: è la pandemia della smaterializzazione.

A volte mi chiedo come sia riuscito a restare rinchiuso per un anno. Io che ho sempre vissuto di molte relazioni. Io che faccio un lavoro il cui fondamento stesso sono le relazioni. Io che faccio un tipo di teatro che si fonda sul corpo in movimento e sul contatto fisico.
Io che quando faccio il mio spettacolo su Francesco passo un sacco di tempo in mezzo il pubblico a toccare le persone mentre parlo con loro. Insomma, com’è stato possibile che io abbia rinunciato ad una parte così grande della mia stessa vita?

È stato possibile perché, in qualche modo, tutto questo lo sapevo già.

L’estate scorsa ho portato in scena un mio spettacolo intitolato
“Il fiore della peste”

https://www.youtube.com/watch?v=zr7o-fSwIUI&t=328s

Ad un certo punto dicevo:
“Sì, io lo sapevo già [che sarebbe avvenuto quello che è avvenuto]. In ogni mia fibra, in ogni mia cellula. Perché l’evento era già qui. Da tanto, tanto tempo. Ora mostra la sua zampata finale, ma era già qui. Lo abbiamo preparato, forse lo abbiamo voluto. L’evento non è un evento ma l’insieme delle nostre azioni e relazioni. L’evento non è caduto dal cielo, è salito dalla terra.
L’evento siamo noi.”

Per me il nostro essere rinchiusi, il nostro non poterci incontrare, non è una sorpresa. Ripeto: non sto parlando della questione sanitaria, sto parlando di altro. Sto parlando del graduale processo di smaterializzazione che da anni stiamo vivendo. Un processo talmente lampante e sotto gli occhi di tutti che non penso sia necessario descriverlo.

Ed è proprio a questo punto, ed è proprio in questo punto, che s’inserisce la mia urgenza – perché di urgenza si tratta – di andare a rivedere la storia del dio di Gesù. Di un dio che ha fatto una cosa straordinaria: si è incarnato. Lui, essenza stessa dell’immateriale,
si è materializzato. Ha assunto una forma. Ha preso corpo.

Tralasciando per il momento le questioni inerenti alla fede – aspetto di cui dovrò necessariamente occuparmi in vista dello spettacolo –
e soffermandomi su questa storia come ci si potrebbe soffermare sull’Edipo di Sofocle – ovvero su una storia fondativa della nostra cultura – penso che l’aspetto dell’incarnazione sia meraviglioso.
E, soprattutto, in totale antitesi con tutto quello che sta accadendo.

Da una parte abbiamo l’uomo che si disincarna,
dall’altra abbiamo un dio che s’incarna.
Cortocircuito.

Di cosa mi parla tutto questo? Mi parla di oggi. Mi parla perfino di questo esatto momento in cui, per comunicare ciò che ho bisogno di dire, non sono nel tempo e nel luogo di chi leggerà. E poi mi parla del lavoro che ho la fortuna di fare.

Peter Brook scrive:
“Non vi è tributo al potere latente del teatro più rivelatore di quello pagato dalla censura. Nella maggior parte dei regimi, anche quando è riconosciuta libertà di parola scritta e d’immagine,
è sempre il palcoscenico l’ultimo a riacquistare la libertà. Istintivamente i governi sanno che l’evento vivo potrebbe creare un’elettricità pericolosa, anche se accade di rado. Questa paura antica, però, è il riconoscimento di un potenziale altrettanto antico. Il teatro è un’arena in cui può prodursi un confronto vivo.
La concentrazione di un grande numero di persone crea un’intensità unica che consente di isolare e di percepire con maggiore chiarezza forze che sono sempre in azione e che regolano la vita quotidiana di ogni individuo”.

Ed ora penso di aver fornito gli elementi minimi necessari per far comprendere quello che ho in corpo. Ovvero un grido.

Come esordisce John Holloway nel suo libro “Cambiare il mondo senza prendere il potere”:
“In principio è il grido. Noi gridiamo. Quando scriviamo o quando leggiamo, è facile dimenticare che all’inizio non c’è il verbo ma il grido. […] Il pensiero nasce dalla rabbia non dalla calma della ragione.”

E, per restare in tema, potremmo aggiungere Giovanni Battisa:
“Voce di uno che grida nel deserto.”

Ecco allora che questo scomposto post nasce da un altrettanto scomposto grido. Che è quello che sto tentando di articolare.

In questo periodo si parla spesso di regime. Ed ognuno parla di un regime piuttosto che di un altro. Anch’io sono convinto che viviamo oppressi da un regime. Un regime transnazionale.
A volte è formato da persone che non sanno quello che stanno facendo. A volte da persone meschine che rincorrono solo i propri interessi. A volte da persone ignoranti che rincorrono solo i propri interessi. A volte da persone lucidissime che vogliono realizzare qualche loro personalissima turba mentale. A volte da persone normalissime che non si rendono conto di contribuire al regime stesso. A volte da persone stanche, a volte da persone sole, a volte da persone disperate, a volte da persone potenti, a volte da persone ricche, a volte da persone malvagie, a volte da persone sommamente stupide, a volte da noi stessi nei momenti in cui ci assentiamo.

Detto questo non voglio assolutamente dimenticare che, sebbene molti concorrano più o meno direttamente a questo stato di cose, esistono persone che hanno maggiori responsabilità. Forse non sono in grado di dire chi sono, ma sono in grado di dire dove sono:
in cima alla scala gerarchica di una società i cui metri di valore sono potere e denaro.

E seppure io stesso mi senta in parte artefice del regime,
ciò non toglie che in me esista un grido. Forte, chiaro, potente.
Un grido che si esprime con una semplicissima parola: No!

No alla smaterializzazione della vita. No alla disincarnazione degli esseri umani. No a tutto ciò che ci vuole soli, isolati, distanti, soccombenti. E questo processo non è certo una cosa dell’ultima ora: è iniziato da tanto.

A me non turba il fatto di dover stare rinchiusi per evitare un contagio, a me turba il fatto che eravamo già pronti a farlo.
Mi turba il fatto che, a conti fatti, avevamo già cominciato a rinchiuderci e a svanire.

Spesso, con una retorica che sfiora la violenza, si chiamano in causa i morti a sostegno della propria opinione riguardo ciò che si debba o non si debba fare. Lo trovo veramente disdicevole. Veramente irrispettoso. Io i morti non li chiamo in causa. Dico solo che se è vero che li si vuole onorare, penso non ci sia modo migliore che ricominciare e/o continuare a lottare. Ma dal principio perché questa pandemia non è una causa: è un effetto.

Ed ora farò un atto di fede.
A modo mio, ça va sans dire.

Dico che se un dio ha pensato che l’incarnazione potesse essere la soluzione, foss’anche stessimo parlando di una leggenda – posto che le leggende vanno trattate come lenti d’ingrandimento estremamente importanti, come suggerisce Régis Debray all’inizio del suo libro su Che Guevara quando ci esorta senza mezzi termini “Scartiamo tutti i fatti per attenerci alle cose serie: le leggende!” – … se un dio ha pensato che diventare umano fosse la soluzione…
io, essere umano, gli credo.

E senza neanche bisogno di toccarlo perché “in verità vi dico”:
lo tocco ogni volta che tocco una persona.
E mai, per nulla al mondo, rinuncerò alla sacralità di tutto queso.
Posso sospenderla se momentaneamente minaccia il bene altrui.
Ma solo sospenderla.


Esistono i fatti.
Esiste l’interpretazione dei fatti.
Ed è in base a quest’ultima che si agisce.

Ebbene oggi, 23 Febbraio 2021, a un anno dalla chiusura dei tetri che per me da sempre rappresentano luoghi di contatto, fisico e non, oggi che si chiude la raccolta fondi per il mio spettacolo, oggi che è il mio compleanno, dopo giorni, settimane, mesi di reclusione e riflessione, sono in grado di comunicare la mia interpretazione dei fatti…

(mentre scrivo mi sembra di redigere un comunicato molto serio. c’è la mia parte ironica, l’eterno fool che dimora in me, che sta ridendo e mi sta suggerendo una battuta idiota per smorzare il tutto. gli voglio bene, al mio fool, ma questa volta gli devo chiedere di tacere. perché tutto quello che ho vissuto, provato, sentito, pensato durante questo anno, tutta la fatica che ho dovuto fare e che devo fare per restare in piedi, merita che, almeno per questa volta, il fool si tolga il berretto e stia ad ascoltare.)

… e la mia interpretazione dei fatti è semplice:

Sta accadendo quello che stava già accadendo.

Perché dico questo? Qual è la pietra angolare su cui poggia la mia interpretazione? Il mio lavoro. Io sono anni che cerco l’incarnazione. Sono anni che chiedo a chi partecipa ai miei laboratori di incarnarsi. Sono anni che faccio spettacoli durante i quali tento di incarnarmi. Sono anni che “chiedo” al pubblico di non essere massa indistinta ma persone uniche e incarnate. Per questo le voglio guardare mentre sono in scena. Per questo, quando sento che “se ne vanno”, vado a cercarle fisicamente. Scendo dal palco, le tocco, con garbo, con attenzione, evitando di metterle in imbarazzo, certo, ma le tocco.
Sono anni che faccio tutto questo. E quello che si fa assiduamente,
di solito, nasconde anche un bisogno personale: in questo caso
il mio personale bisogno di incarnarmi.

Sono anni che lo faccio ed ora ho deciso di incontrare, se così si può dire, quell’uomo vissuto più di 2000 anni fa, quell’uomo che, guarda caso, toccava. Toccava, toccava, toccava. Toccava i paralitici, i ciechi, i lebbrosi. Si accorge addirittura di una donna che gli sfiora la veste.

E perché li tocca?
Per guarirli.
Ma da cosa, esattamente?

Dall’esclusione sociale.
Perché erano considerati impuri e non potevano essere neanche toccati. Perché dovevano vivere isolati ed esclusi dal resto della società. E Gesù usa il suo corpo fisico per reinserirli nel corpo sociale. Così come fece anche Francesco d’Assisi.

https://www.youtube.com/watch?v=813G853de6g&t=69s

Impuri. Lebbrosi. Appestati.
Questo siamo.
Appestati.

E non sto parlando di malattia. Non sto parlando di covid.
Sto parlando di una condizione sociale estesa alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

Appestati se siamo immigrati.
Appestati se siamo omosessuali.
Appestati se siamo drogati.
Appestati se siamo carcerati.
Appestati se siamo malati.
Appestati se siamo disabili.
Appestati se siamo poveri
Appestati se siamo donne.
Appestati se siamo bambini.
Appestati se siamo vecchi.
Appestati se siamo umani.
Appestati se siamo quelli che Gesù avrebbe amato.

I complotti.
Devo ammettere che in questo anno se ne sono sentite parecchie di fantasie. D’altronde è normale quando si inietta nella società una dose così massiccia di paura corredata da un’informazione talmente folle e invasiva che ormai la si può tranquillamente chiamare disinformazione. Ad ogni modo, sempre secondo la mia personalissima interpretazione dei fatti, il complotto c’è eccome. Solo non è nato adesso. E nemmeno ieri.

E un po’ sorrido ascoltando o leggendo i complottisti dell’ultima ora perché, attraverso le loro stesse azioni e scelte, attraverso il loro modo di vivere, sono complottisti nel senso di essere collaboratori del complotto, non vittime. Così come lo siamo quasi tutti.

E lo siamo diventati quando abbiamo aderito alla nuova fede mondiale: il capitalismo.

Non parlo di capitalismo dal punto di vista strettamente economico (non ho studiato economia per cui in materia sono molto ignorante), no: parlo proprio di fede capitalista. Una fede che dall’ambito economico è passata all’ambito esistenziale.

Competo ergo sum!

Obiettivo: vincere.
Mezzi consentiti: tutti.
Motto: il fine giustifica i mezzi.
Il tuo peggior nemico: il prossimo. Chiunque esso sia.

Questo è il complotto. Questo!

Ed è difficile chiamarsi fuori. Molto difficile. Perché questo modo di concepire l’esistenza si è fatto pervasivo e ha invaso quasi tutti gli aspetti della vita. Soprattutto quelli materiali. Ma, come si dice, è impossibile uscire da Matrix se non ti accorgi di essere in Matrix.

E così ho deciso di avvicinarmi alla storia di Gesù. Non per un fatto di fede. La fede è una cosa personalissima e intima. In più la mia è a dir poco vacillante; diciamo che somiglia tanto ad un funambolo che ogni due per tre cade e si spacca le ossa.

Ho deciso di avvicinarmi a questa storia perché ho la netta sensazione che molte volte sia stata utilizzata per dirci praticamente l’opposto di quello che voleva dirci, fino ad essere addirittura utilizzata per giustificare ed alimentare questo sistema sociale profondamente ingiusto. D’altronde è tipico del potere.
Il potere non annienta: ingloba.

Proprio ora, proprio mentre scrivo, mi è arrivata una notifica.
Dice che un’altra persona ha contribuito alla raccolta fondi.
Ogni volta è un’emozione. Indipendentemente dalla cifra.
E fino a qualche tempo fa mi sarei schernito. Avrei pensato
“Ma siete pazzi ad avare fiducia in me?!”
Oggi no.

E non perché abbia improvvisamente raggiunto chissà quale grado di auto-stima. Quella resta sempre lì dov’è, piuttosto in basso.
Il motivo per cui non mi schernisco è perché non sto pensando a me o alle mie capacità – che altri dovranno giudicare – ma a quello
che sto cercando. A quello che per ora intuisco solamente.
Ma con grande, grande forza.

E quello che intuisco è…


Qualche giorno fa abbiamo festeggiato l’arrivo della sonda su Marte. Anch’io ho festeggiato. Anche perché sono appassionato di fantascienza e tutto questo, a me, sembra fantascienza. Poi mi sono chiesto il motivo dell’emozione che ho provato ed ho capito che era molto semplice. Ho provato qualcosa tipo “Dai che forse riusciamo a scappare da questo pianeta e a ricominciare altrove!”

Un pensiero che mi fa tenerezza. Soprattutto perché so benissimo che scappare non è in alcun modo una soluzione. Perché il fatto non è decidere se abitare un pianeta piuttosto che un altro ma decidere se abitare o meno la persona che siamo.
Il fatto non è partire ma arrivare.

E la persona che siamo non esiste isolata da tutto il resto. Esiste in virtù delle proprie relazioni. E nella vicenda di Gesù si parla moltissimo di relazioni. Allora voglio proprio andare a vedere cosa significano esattamente alcune frasi che, a pensarci bene,
fanno venire le vertigini.

“Ama il prossimo tuo come te stesso”
“Porgi l’altra guancia”
“Amate i vostri nemici”


L’esatto opposto dei principi del capitalismo.
L’esatto opposto di quello che ti insegnano fin da bambino.
Sì, magari parlando di Gesù ti dicevano quelle frasi. Ma poi quando si trattava di aver a che fare con la vita, nuda, cruda, improvvisamente quelle stesse frasi che al riparo di una chiesa sembravano la cosa giusta da fare, una volta varcata la porta, liquidando il mendicante seduto sulle scale con un freddo “non ho niente” mentre tu, appeso alla mano dell’adulto, pensavi “mi sa che allora non ho capito cosa vuol dire carità, elemosina, eccetera”, appena fuori da quel luogo deputato ad essere buoni, tutte le belle frasi che avevi ascoltato, improvvisamente, si trasformano.
Si capovolgevano.

“Fidarsi è bene non fidarsi è meglio”
“Se ti danno un cazzotto ridaglielo”
“Sconfiggi i nemici”


E quello che intuisco è… troppo pesto per dirlo.
Perché ancora non ha forma.
Perché la scrittura non è il mio mezzo.
Perché il lavoro dei prossimi mesi consisterà, appunto,
nel dare un corpo all’intuizione.
Nel darle il mio corpo.
Nell’incarnarla.


… finale imprevisto…

Ieri si è definitivamente disincarnata una mia carissima amica.
Si chiama Anneli.
Sarebbe stata una delle attrici dello spettacolo “2020”.
Dedico a lei tutto questo.
A lei e a Lorenzo, suo figlio e mio giovane amico.

Ed è proprio pensando ad Anneli che, non so perché, mi è venuto il desiderio di condividere quell’intuizione che è troppo presto per dire.

L’invito dell’uomo vissuto più di 2000 anni fa è semplice: il senso della vita è amare. Ovviamente lo articola in molti modi e con estrema intelligenza. Ma questo – al di là del fatto che lo si faccia o meno – possiamo dire che lo sappiamo tutti, che l’abbiamo pensato più di una volta e che non c’è bisogno di chissà quale esegesi per comprenderlo. In verità non c’è neanche bisogno di credere in Dio: basta essere umani.

Infatti ciò che mi colpisce di quella storia non è tanto il “cosa” quanto il “dove” e “quando”.

Gesù invita i proprio contemporanei. E i propri contemporanei vivevano in una condizione tremenda. Vivevano sotto la dominazione romana. Subivano violenze e soprusi. Molti non avevano di che sopravvivere. Questo è quello che mi colpisce.

Gesù non delega l’atto di amare ad un tempo e ad un luogo di pace. Non invita le persone ad isolarsi in un luogo sperduto per creare le condizioni necessarie all’amore. Anzi, va per le strade. È come se parlasse dal cuore esatto della guerra. È come se dicesse che non esisteranno mai luogo e tempo adatti. È come se chiedesse di non delegare ad un ipotetico futuro migliore la parte migliore di noi.

Non a caso il suo parlare del “Regno” è diverso da quello di tutti i profeti del tempo. In parte anche lui parla di un Regno di là da venire, ma in parte ne parla come se fosse già qui. Ma qui… dove?

Basta osservare le persone con cui è stato.
Il Regno è in basso, non in alto.
Così come il dio di cui parla.
Il dio che dall’alto è sceso in basso.
Il dio che si è incarnato.
Il dio che si è fatto umano, chissà, forse per invitare gli esseri umani a farsi umani. A nascere di nuovo.

Perché Anneli mi ha fatto venire il desiderio di condividere questa intuizione ancora prematura? Perché quando una persona speciale come lei, e alla quale vuoi molto bene, se ne va, la prima cosa che pensi è che non le hai dimostrato sufficientemente il tuo amore.

Perché non ci sarà mai un luogo e un momento giusto per farlo.
Perché il luogo è sempre qui e il momento è sempre adesso.

Concludo riportando di seguito la risposta di Anneli ad una domanda che le rivolsi per un’intervista. Penso sia un modo perfetto per incarnarsi. Perfetto per questo luogo e per questo tempo in cui non possiamo ancora toccarci.

Mi piacerebbe tantissimo
portare fuori lo sguardo.
Uno verso l’altro.
Lo sguardo dove non ridi
giusto perché devi ridere
o fai una faccia
giusto perché la devi fare.
Ma guardi veramente una persona
negli occhi
così com’è.
E ti lasci guardare.

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non andrà male, è già andata male

Non posso permettermi di parlare della questione sanitaria, della questione politica, della questione economica. Perché mi sento troppo ignorante a riguardo. E la situazione attuale non permette certo un confronto sereno. Non appena si esprime un dubbio o si pone una domanda, c’è sempre qualcuno pronto a decidere di quale schieramento fai parte. Se pensi che un vaccino possa essere la soluzione fai improvvisamente parte di una élite occulta che vuole distruggere l’umanità. Se hai dei dubbi sulla possibile efficacia di un vaccino finisci dritto dritto nella categoria dei complottisti con relative scie chimiche, terra piatta e luna quadrata. Se immagini che chi è al governo stia tentando di fare del proprio meglio sei del PD. Se pensi che siano degli incompetenti sei della Lega. Se credi che bisognerebbe affrettarsi a riaprire tutto sei un assassino. Se pensi che occorra fermarsi per rivedere completamente l’economia sei un assassino.

Per ogni dubbio o domanda o incertezza – ovvero per ogni parte di te che non è sicura e che si sente ignorante – c’è qualcuno dietro l’angolo che usa quello che dici per incasellarti in una categoria e, dalla categoria opposta, spararti contro. Non c’è più spazio per il pensiero libero. Anzi, chi tenta di pensare liberamente è diventato letteralmente intollerabile. Da una parte e dall’altra. Sottolineo: da una parte e dall’altra. L’unica cosa che sembra unire tutti è il bisogno spasmodico di scaraventarti in un gruppo riconoscibile e ben delimitato. Perché è intollerabile avere tra i piedi qualcuno che non sa. Qualcuno che in testa ha solo milioni di domande. Qualcuno che cerca di ascoltare tutti e che si chiede se non ci sia in ognuno almeno una parte di verità. Qualcuno che non faccia parte di nessun tipo di schieramento. È intollerabile avere tra i piedi qualcuno che si sfila dalla logica dello scontro. È insopportabile qualcuno che non abbia un nemico preciso. Perché questo, oggi, identifica la maggior parte delle persone: il nemico. Che triste e misera identità se ciò che le conferisce forma e sostanza è un nemico! “Ho un nemico quindi sono.” Una logica vecchia, trita, miserabile. “Se non sei con me sei contro di me”, declamava Pompeo. Mentre dall’altra parte Cesare suggeriva un più laconico: “Se non sei con me… non sei con me.”

Quindi in verità, nonostante la presunta libertà d’espressione e d’informazione, non c’è spazio per la libertà di pensiero. E l’aspetto letteralmente terrificante di questa costrizione è che essa non viene imposta dall’altro ma assunta dal basso. Il censore non sta in cima, ma in basso. È tra di noi. È in noi. Siamo noi. Il vecchio trucco del potere: spostare in basso il conflitto e, come Pilato, lavarsene le mani.

Noi censori, noi detrattori, noi spie, noi delatori, noi cecchini, noi giudici, noi appostati per spararci contro, noi contro noi. Più semplicemente: tutti contro tutti. Questo, per me, è lo scandalo. Questa è la vergogna. Questo è il motivo per cui ultimamente non mi riconosco più in niente e in nessuno. E le persone che più mi turbano non sono i cosiddetti haters: la loro “logica” mi è ormai chiara da tempo. No, le persone che mi turbano sono quelle intelligenti. Sono loro a farmi paura. Sono loro che hanno ceduto. Sono loro che hanno paura. E quando una persona intelligente ha paura può raggiungere un livello di brutalità terrificante, può arrivare a fare di tutto perché ha dalla sua un’arma potente: l’intelligenza.

Questo è quello che vedo. Di questo mi sento di poter parlare. In base a questo posso dire che non andrà male ma che è già andata male.

Sono profondamente deluso. Perché sono ingenuo. E l’ingenuità non è una dote, no: di questi tempi è un crimine. E forse anche la speranza è un crimine. La mia speranza che la pandemia avrebbe potuto cambiare tutto. La speranza che ci si svegliasse improvvisamente da quell’orrendo incubo che si chiama capitalismo. La speranza che ci guardassimo negli occhi – sì, negli occhi, anche senza toccarsi – e ci dicessimo “abbassiamo le armi, ritroviamoci… non siamo nemici… siamo sorelle, siamo fratelli…” Oh, questo pensiero naïf! Oh questa ingenuità da bambini! Provo un odio nei confronti di questa parte di me senza pari! La odio perché mi fa sognare, perché mi fa sperare, perché mi fa cercare sempre, sempre e sempre il possibile, il fattibile, il salvabile. La odio perché quando qualcuno commette una violenza si innesca una specie di freno automatico che mi dice “aspetta… aspetta a giudicare… guarda bene, osserva, ascolta… lo sai: ogni violenza, in verità, viene da una ferita, da un varco, da una paradossale richiesta d’aiuto… aspetta… aspetta…”

Bello, no? Bello pensarla così, no? Meraviglioso. Peccato che mi si è insinuato un dubbio atroce. Il dubbio è che io non voglia vedere. Che io non voglia vedere la violenza, l’arroganza, la brutalità, la stupidità, la superficialità. Che io non voglia vedere il male. Il male che non è male moralista. Il male che è semplicemente male di chi fa del male a qualcuno. Di chi non sceglie con tutte le proprie forze di convertire il male in entrata in bene in uscita. Quale altra speranza abbiamo? Quale altra speranza abbiamo?! Se qualcuno ti tratta male e tu prendi quel male che t’è piombato addosso senza motivo e lo riversi senza motivo su qualcun altro… quale speranza abbiamo?! Nessuna!

Ed ecco, non ho più speranza. Non ho speranza che domani vada bene perché oggi sta andando male. Ed ora vedo solo questo. Ed ora voglio guardare solo questo. Anche se fa male. Perché fa male. Fa un male cane. Questo scontro capillare, questo conflitto portato a tutti i livelli, questa violenza tra persone ugualmente ignoranti. E impazzisco, letteralmente, se penso che mentre noi ci scanniamo come stupidi idioti, attorno a noi, vicino a noi e lontano da noi, ci sono persone che non hanno più neanche la forza di parlare perché schiacciate dalla miseria, dall’abbandono, dalla violenza di un sistema sociale globale tra i più stupidi che si possa immaginare: quello del “vinca il più forte”. Tutto ruota attorno a questa brutalità e alle sue derivate.

Lavoro da tanti anni con i giovani. Li osservo, li ascolto, sto con loro. E a un certo punto, proprio quest’anno, mentre stavamo lavorando ad uno spettacolo, ho visto una cosa in tutta la sua semplicità: molti di loro cercano di farcela. Farcela. Farcela… a fare cosa? Ad emergere dalla massa indistinta. Come non capirli? Come non capire il successo di tanti talent? Non ti senti nessuno, ti senti solo un numero, sono anni che canti da solo nella tua stanza di un qualunque palazzone di una qualunque periferia e mai nessuno che venga a dirti “ma sai che sei bravo?”, oppure “continua, non ti fermare”. Canti, canti, canti. Da solo. Per dire che esisti. Perché questo è cantare: dire che esisti tu e che esiste quello che vedi e che gli altri non solo non vedono ma calpestano ed umiliano con allegra distrazione. E a un certo punto non ce la fai più. Vuoi solo gridare “io esisto! perché non mi vedete?!”. E allora vai ad un talent. Uno qualunque. Certo, ovvio, giusto! Ci vai per farcela. Per farcela ad esistere. E lì scatta la trappola. “Vinca il più forte”. “Arriva in cima”. “Sconfiggi tutti gli altri”. Che bestialità! E poi nel campo dell’arte… Dio mio!… l’arte! Forse uno dei pochi “luoghi” al mondo in cui è letteralmente impossibile dire chi è il numero uno. Uno dei pochi “luoghi” in cui regna sovrana la Divina Soggettività. Ma che, niente. Facciamo deflagrare anche l’arte, questo ultimo stupido baluardo dell’umanità.

E allora la convinzione è questa: “Devo farcela. Devo diventare il numero uno. Devo sconfiggere gli altri. Devo arrivare in cima”. In cima. In cima a cosa? In cima c’è posto per uno solo. In cima è così stretto che puoi starci solo tu. In cima c’è la solitudine. In cima non c’è l’umanità, ci sei solo tu.

Questo pensano. E non lo dico io: li ho ascoltati con le mie orecchie. Pensano che per salvarsi, in definitiva, occorra uscire dall’umanità. Staccarsi da tutto e da tutti. Soli. Numeri uno. Soli. Soli eclissati.

Ma sanno distinguere. E questo lo dico perché l’ho visto con i miei occhi. Se qualcuno offre loro un’altra possibilità, sanno distinguere e scegliere. E non hanno nessun dubbio. Se qualcuno gli offre la possibilità, o anche solo l’eventualità, che la soluzione non sia arrivare in cima da soli ma stare in basso insieme ad altri… sanno esattamente cosa scegliere. Ma chi offre loro questa possibilità? Chi offre loro questa visione se noi stessi, ad ogni livello, abbiamo profondamente accettato la logica del “vinca il più forte”? Per i giovani, si sa, le parole contano fino ad un certo punto. Quello che guardano è quello che fai. Quindi hai voglia a rintontirli di solidarietà quando quello che fai è l’esatto opposto.

Il capitalismo è arrivato ovunque. Non geograficamente ma intimamente. Non vendiamo più oggetti ma noi stessi. Sì: gli abbiamo venduto l’anima. E il capitalismo è fatto di concorrenza, di sfida, di oppressione del nemico. Il suo obiettivo è arrivare primo e schiacciare chi si trova tra i piedi. Tra i princìpi del capitalismo non figura in alcuna maniera la solidarietà. E se a volte appare è solo perché qualcuno ha capito che conviene. Per aiutare gli altri? Ma va! Rido! Conviene sempre per lo stesso motivo: arrivare in cima. Il capitalismo si fonda sullo scontro, sul conflitto, sulla guerra. E non riguarda più solo l’economia o le merci, riguarda tutto. Si capitalizzano denaro, merci, persone, idee, like…

Pensavo che tutto questo, grazie alla sciagura della pandemia, risultasse evidente. Pensavo che la pandemia non fosse solo l’esplosione di una malattia ma una lente d’ingrandimento sull’essere umano. E così è stato. Solo che non mi aspettavo la nostra reazione di fronte alla visione di noi stessi.

Una volta che questa lente si è frapposta tra noi e noi, tra noi e la realtà… cosa abbiamo deciso di fare? Di scannarci. Una mandria folle e cieca, questo siamo. In una corsa che conduce alla distruzione. E non lo vediamo. E l’idea geniale che ci salta in mente, mentre corriamo all’impazzata immersi in un branco che corre verso lo sfacelo… qual è? Qual è il capolavoro? Assumere in noi ogni grado di conflitto. Scannarci a vicenda. Per ogni cosa. Come bestie. Anzi no, chiedo scusa alle bestie perché loro sono innocenti. Noi ci scanniamo da esseri umani. Noi ci scanniamo con intelligenza. In noi c’è la volontà lucida di sopprimere l’altro. E non per cibarcene, come fanno le bestie, no: solo per avere ragione. Solo per arrivare in cima. Solo per sottomettere gli altri. Solo per diventare i numeri uno. Quanto mi fanno ridere alcuni atei! E non lo dico da credente perché manco quello so di me. Ma, ecco, alcuni atei mi fanno ridere più dei credenti perché, pur non credendo in Dio, si comportano come se si sentissero Dio in persona.

Non andrà male, è già andata male.

E questa volta non voglio guardare ciò che non c’è. O che spero ci sia. Questa volta voglio guardare in faccia chi siamo. Chi siamo diventati. Cosa stiamo facendo. E se il virus scomparirà e smetterà di mostrarci chi siamo, cercherò di prendere il suo posto. Dal mio picco, piccolissimo luogo di enorme e dilagante ignoranza. E mai fingerò di sapere. Ma neanche smetterò di vedere con i miei occhi, di sentire con i miei sensi, di ragionare con la mia testa che, per inciso, non è mai stata né mai sarà all’interno di nessuno schieramento. Questa è la mia unica certezza: che non mi troverete mai in nessun recinto. Non già per una mia qualche dote personale ma perché il destino mi ha riservato, in tenerissima età, la visione esatta della stupidità congenita in ogni tipo di schieramento cieco e assolutista.

Sono decenni che cammino sul filo.
E smetterò di farlo solo quando, per un’acrobazia forse troppo ardita, o per un eccesso di spavalderia, cadrò a terra.
Allora sì, saprete dove trovarmi.

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oggi piango

Oggi, con un po’ di vergogna, piango.
Per tutto.
Per tutti.
Oggi non ho idee, né ipotesi, né congetture.
Oggi la mente fa click e la diga crolla.

Piango per il dolore, per l’umanità calpestata, per la natura devastata, piango per le vittime e per i carnefici, piango per questa sete inestinguibile di giustizia e di pace. Piango per le persone sole, piango per il sole, per i pianeti e per le stelle, piango per me e per te, piango per le persone alle quali hanno impedito di accompagnare chi amavano. Perché della morte non si sa niente ma della paura di morire e dell’orrore di morire soli si può impazzire. Piango per la violenza, per tutta la violenza, quella fisica, quella verbale, quella sociale, piango per le creature innocenti e per i loro occhi puntati su chi dovrebbe salvarle e invece le uccide, piango per chi uccide perché non sa più dov’è, né chi è, né se esista al mondo qualcosa per cui valga la pena vivere, e non uccidere. Piango per gli scontri, per i conflitti, piango per gli avvoltoi che volteggiano sulle tragedie, piango per gli sciacalli che si litigano brandelli di dignità umana. Piango. Per tutto. Per tutti. Per questo bisogno ormai allo spasmo di una classe politica buona, sì, buona, nient’altro che questo: buona. Piango per chi sa la verità e nessuno lo ascolta e lo fa fuori. Piango per l’eterna dittatura dell’opinione pubblica che, allegramente distratta, mette la museruola a chi per la verità e per la giustizia ci si gioca la vita. Piango per l’ignoranza, per quella di chi sa di non sapere, per quella di chi non sa di non sapere e soprattutto per quella di chi è convinto di sapere. Piango per tutta la miseria del mondo, per tutto l’abbandono del mondo, per tutta la dignità frantumata a colpi di denaro e ricchezza e potere. Piango per i piccoli e per i grandi, per gli eternamente invisibili e per gli instancabilmente visibili. Piango perché ho una convinzione e mi sento stupido, stupido, molto stupido. Piango per la mia convinzione che se ognuno ricevesse attenzione e amore quest’inferno finirebbe in un istante. Piango per la mia ingenuità che non riesce a vedere il male. Vedo dolore, vedo sofferenza, vedo ferite e vedo tutto questo trasformarsi in rabbia e odio. Piango perché non sono fatto per questo mondo. Piango per il mondo che ci porta sulla schiena, a capo chino, e aspetta, aspetta, aspetta che ci risvegliamo. Piango per la terra che ci porta in grembo, a testa alta, e piange, piange, piange. Perché uccidere una madre è così tremendo che non piange per lei ma per noi, perché non sappiamo più quello che stiamo facendo. Piango perché niente sembra bastare. Neanche una pandemia. Neanche tutti questi morti. Niente basta a fermare tutto. E non parlo di uscire o non uscire, di lavorare o non lavorare. Parlo di un adulto che ci ha schiaffeggiati così forte che siamo finiti a terra con le ossa in frantumi. E quell’adulto chiamalo come vuoi: Natura, Vita, Dio.
Ci ha schiaffeggiati tutti. E ha detto “basta così! vi state uccidendo!” Ci ha schiaffeggiati per amore. E noi non apriamo gli occhi. Ancora non apriamo gli occhi. Piango perché io so una cosa senza saperla dimostrare: so che quello che sta accadendo accade perché dobbiamo rivedere tutto. Tutto. Piango perché speriamo che il mondo di prima si aggiusti. Piango perché spero che il mondo di prima si aggiusti. Piango perché non vogliamo svegliarci. Piango perché non voglio svegliarmi. Piango perché vogliamo vivere come fantasmi. Piango perché voglio vivere come un fantasma. Piango perché non vogliamo vivere. Piango perché non voglio vivere. Piango per me. Per la mia miseria. Per il dolore che ho inferto. Per le volte in cui non mi sono accorto di una ferita ma, anzi, ci ho infilato la lama. Piango per la mia stupidità. Per il mio egoismo. Per la mia ingratitudine.

Oggi è il 1° Maggio.
Festa del lavoro.
Dicono che manca il lavoro.
Non è vero.
Quello che manca è la retribuzione per chi lavora.
Di lavoro invece ce n’è fin troppo.
C’è da rivedere tutto.

Vedo questa lacrima che oggi è scivolata giù.
La vedo come fosse un’ampolla.
Vedo, o forse sogno.
E sogno che venga considerato lavoro
tutto ciò che contribuisce alla vita.
Di tutti.
Di tutto.

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risveglio

Scrivo da un limbo. Scrivo da una quarantena. Il tempo è dilatato, sospeso, rarefatto. La sensazione è che si sia improvvisamente fermata una folle corsa. Ed ora mi guardo attorno, attonito. Come se non avessi capito cosa è successo. Lo so cosa è successo, l’ho capito. Ma, ugualmente, non lo sto capendo. C’è qualcosa che va oltre il virus e la pandemia. C’è una specie di lento, lentissimo, risveglio.

È come il tempo che ti ci vuole, al mattino, per uscire dal sogno e rientrare nella realtà. Solo che in questo caso il tempo è molto più lungo. Ma la sensazione è identica. E così come nel sogno hai fatto cose che nella vita non avresti mai fatto, così ora fatichi a riconoscerti. Altro che capire come sarà domani, cosa faremo,
dove andremo. Il problema è molto più piccolo e, al contempo, totalizzante. Il problema è che non so chi sono.
O meglio: non so chi ero.

Chi era quello sempre di corsa, spesso ansioso, quello che pur di non arrivare tardi ad un appuntamento si presentava un’ora prima, quello che si agitava per ogni cosa, quello che costruiva, costruiva, costruiva? E soprattutto: cosa costruiva? So che lavorava per la sopravvivenza, questo lo so. Ma per il resto? Cosa stava facendo? Cosa stava costruendo? E la risposta allarmante è: niente. Niente. Nessuna direzione precisa, nessuna ferrea intenzione, nessuna linea d’orizzonte. Solo un continuo fare, fare, fare.
Fare cosa, esattamente?

O, forse, la domanda è ancora più semplice: a che punto ero arrivato? Dov’ero? E non sto parlando solo di lavoro, professione, eccetera. Non sto parlando solo di soldi, questioni materiali, eccetera. No. Dov’ero rispetto al grande mosaico dell’esistenza? Dov’ero all’interno di quel viaggio iniziato tanti anni fa, quando venni al mondo senza neanche averlo chiesto? O magari l’ho chiesto ma, di sicuro, non lo ricordo.

Quello che ricordo, invece, è la luce del sole che entrava nella stanza e io, ragazzino irriverente, che ballavo. Per niente. Per nessuno. Neanche per me. Ballavo perché ero vivo. Perché sentivo che ero vivo. Ballavo una scomposta danza di gratitudine. Ecco, sì, ringraziavo. Ringraziavo non so chi e non so cosa del fatto di esistere, del puro fatto di esistere. Una gioia la cui ragione risiedeva nella gioia stessa. Sì, insomma, gioia pura. Distillata.
E poi cosa è successo?

E poi si sono successi una serie infinita di surrogati. Alcuni degni, molto degni, altri meno, molto meno, ma pur sempre surrogati.
Tra i primi sicuramente l’amore, l’amicizia, la ricerca di un senso, il teatro, i figli. Tra i secondi… lasciamo perdere. Ma quel contatto non è mai più stato così potente. O meglio, a volte lo è stato, ma sempre più raro.

Dunque? Cos’è successo? È successo che di quella gioia ce n’è stata sempre meno. È successo che per raggiungerla ho fatto di tutto, anche cose che è meglio non dire. È successo che ho svenduto il mio puro esistere – non richiesto e non meritato ma ricevuto come dono incommensurabile -, per… cosa? Per cosa ho svenduto la mia vita? E a chi l’ho svenduta? Non saprei, davvero. Ed è questa la sensazione che provo forte in questo periodo: che non so esattamente cosa ho fatto, né perché, né per chi. Che ho vissuto ma non ho vissuto.

Non sto dicendo che tutto è stato brutto e triste. Anzi! Ci sono state, e ci sono tutt’ora, cose letteralmente meravigliose. Chi c’è stato poco sono io. Per la vita che ho vissuto fino ad ora ci sarebbero miliardi di motivi che meriterebbero la mia gioia. Talmente tanti che non vedo l’ora di avere una nipotina da ammorbare con i miei racconti.
Ma io ci sono stato? O meglio: fino a che punto ci sono stato?
Ed ora: fino a che punto ci sono?

Impercettibile.
Sensazione impercettibile.
Quella di una non completa aderenza.
Come di una pellicola tra me e l’esistenza.

Questo provo, nel limbo di questi giorni. Un lento risveglio dal mio non esserci stato completamente, dal mio aver vissuto in apnea, schivando la vita stessa. In definitiva: rifuggendo la gioia.

Mi si dirà che la felicità fa più paura della tristezza. Sì, lo so. Chi mi conosce meglio mi dirà che dipende dall’infanzia che ho avuto. Sì, in parte è vero. Ma quello di cui parlo… pardon… quello di cui cerco di parlare, non riguarda contingenze o psicologismi. Anzi, direi che è tutt’altro che materiale e razionale. È un tipo di pensiero magico, direi. Quello che hai da bambino o da ragazzino. È il tuo relazionarti all’esistente come ad un miracolo, in quell’età in cui non pensi certo alle religioni. E non pensi neanche a Dio perché Dio, qualunque cosa sia, a quell’età è ovunque. Non lo pensi perché lo vivi, ne fai esperienza. Non lo pensi perché ne sei parte. Non lo pensi perché lo senti ovunque. Lo chiamo Dio ma potrei chiamarlo Vita o Amore.
O Gioia.

Sono diventato un attore, so scrivere delle cose, mi destreggio nella regia, ho una famiglia follemente meravigliosa, una donna che amo e che mi ama e che “grazie destino!”, una figlia non di sangue che secondo me ormai ha il mio stesso sangue, un figlio di sangue che è l’unica opera d’arte alla cui nascita io abbia contribuito, ho amici, non sono solo, riesco a pagare tetto, acqua, luce, riscaldamento, cibo. Sì, insomma, ci sono.

Ci sono.
No, non ci sono.
Non ci sono per intero.

Mi manca una parte. Forse piccola. Sicuramente irrazionale. Magari folle. Ma mi manca. Quella parte che non sta in nessuna casella, in nessun codice, in nessun ordine, in nessun numero, in nessun curriculum, in nessun conto corrente, in nessuna gerarchia, in nessuna categoria. Quella parte che non interpreta l’esistente ma lo riceve e lo beve e se ne inebria. Quella parte che danza scomposta inneggiando alla vita tutta, morte compresa. Quella parte che ha dato vita a tutto. Quella parte che non è una parte ma è tutto.

Ci siamo noi. Ci sono le case. Ci sono le città. Ci sono i paesi. Ci sono le nazioni. Ci sono i continenti. C’è il mondo. C’è il cielo. C’è il sole. C’è la luna. Ci sono le stelle. Ci sono le galassie.
C’è l’universo.

C’è questo secondo. C’è questo minuto. C’è questa ora. C’è questo giorno. C’è questa settimana. C’è questo mese. C’è questo anno. C’è questo secolo. C’è questo millennio. C’è questa era.
C’è il tempo.

E noi siamo dentro a tutta questa vertigine letteralmente impensabile. E ogni scienziato onesto vi dirà che è impensabile.
E anche ogni religioso onesto vi dirà la stessa cosa.
C’è l’impensabile. E questo impensabile c’è da sempre, ovunque e per sempre. E noi. E io. E io ho smesso di sentirlo. E io ho smesso di sentirmene parte. Perché… perché avevo da fare… perché avevo un appuntamento… perché stavo costruendo…. perché ero dentro una folle corsa. Ed ora che sono sceso mi chiedo dov’è, l’impensabile.
Mi chiedo che fine ha fatto. Mi chiedo che fine ho fatto.

Dov’è tutto?
Perché non lo sento?
Dove sono io?
Dov’è la gioia?
Chi sono io?

È un virus, sì. È una pandemia, sì.
È dolore, sì. È morte, sì. È paura, sì.
Ma non è solo questo.
È quello che sta succedendo, sì.
Ma non è, assolutamente, solo questo.

Forse è un risveglio.
Forse.
Nel caso dovremo ammettere che prima stavamo dormendo
e che, dormendo,
stavamo vivendo il sogno di qualcuno
che non siamo noi.

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salviamo il mondo (da noi stessi)

Devo ammettere che all’inizio ero più ottimista. Pensavo che quello che sta accadendo avrebbe cancellato, come una spugna, gli infiniti inutili conflitti. Pensavo che, in noi, tutti i punti esclamativi avrebbero subìto una torsione e si sarebbero trasformati in punti interrogativi. Perché sono quelli, in definitiva, che fanno cozzare le persone: i punti esclamativi. Alcuni sono fondamentali, come il rispetto per gli altri e per la natura. Ma poi ce ne sono una quantità inverosimile di totalmente inutili. Anzi: dannosi.

Pensavo che il virus, in qualche modo, avrebbe controbilanciato il suo carico di grande morte e immenso dolore con una carica direttamente proporzionale di comprensione, desiderio di incontro, abbattimento di difese e relative linee d’attacco. Non è così. Sono semplicemente cambiate le trincee. Gli eserciti hanno semplicemente cambiato terreno. I conflitti si sono spostati in altre zone.

Non voglio entrare nel merito degli aspetti specifici che riguardano la pandemia ma voglio fissare lo sguardo sulla modalità con cui se ne parla. Beh, se ne parla come ieri si parlava di tutto il resto. Raramente c’è dubbio vero, domanda vera, incertezza vera. Raramente ci si sente abbattuti, atterrati, sconfitti. In pochi casi si ha lo sguardo e lo stato d’animo di chi è stato colpito e affondato. Quasi mai ci si sente arresi.

Arrendersi.
Pare proprio una brutta cosa.
Da qualunque lato la si guardi.
Può essere, ma ci sono un paio d’aspetti della resa che sono fondamentali alla vita: l’impotenza e l’umiltà. Varchi. Fessure. Aperture. Punti di passaggio. Cunicoli che portano al nostro essere limitati. Al nostro essere mortali.

Penso che tutti abbiamo provato, almeno una volta, la potenza della debolezza. Penso che a tutti sia capitato di entrare in quel luogo di noi stessi in cui si accettano profondamente la nostra fragilità e la nostra ignoranza. Quella volta in cui il dolore ci ha colpiti così forte da scioglierci. Quando qualcosa di più grande di noi ha scovato l’interruttore del nostro punto debole – la pietra d’angolo sulla quale abbiamo edificato la nostra vita -, l’ha premuto e ci ha fatti diventare come quei pupazzetti fatti di pezzi di legno tenuti insieme da fili. Quelli che, se premi il tasto che c’è sotto, si afflosciano su se stessi. Si afflosciano, vengono giù, cedono alla forza di gravità. Dolcemente. Perché questo è l’aspetto paradossale delle potenze che governano la vita: sono inesorabili, spietate, inarrestabili ma, contemporaneamente, contengono una dose di dolcezza. Gli occhi increduli di chi ha perso qualcuno, le membra senza tensioni di chi è malato, le menti in silenzio di chi è sopraffatto da una tragedia.
Quel silenzio, quell’esser sicuri di una sola cosa: di non sapere.
Di non avere il controllo. Di non poter fare quasi nulla se non…

Se non evitare di causare dolore.

Rivoluzione.
In questi tempi ci penso moltissimo. È una parola che ho amato come non mai. L’ho amata da giovane quando volevo cambiare il mondo, l’ho amata quando incontrai i comunisti, quando misi su un’associazione contro il razzismo, tutte le volte che sono sceso in piazza, quando qualcuno mi raccontò a dovere la storia di Gesù, quando decisi di diventare medico e di andare a curare bambini in Africa, quando mi resi conto che quella non era la mia strada ed entrai all’accademia d’arte drammatica, quando incontrai gli anarchici, durante le interminabili notti di parole con il mio amico drammaturgo, quando per tre anni organizzai, d’estate, un incontro di una settimana con un gruppo di 35 amiche e amici perché sentivo che dovevamo parlare e stare insieme, quando feci uno spettacolo su Che Guevara, quando studiai la rivoluzione Zapatista, quando andai al G8 di Genova, quando feci uno spettacolo su Francesco d’Assisi, ora che tengo laboratori che poi diventano spettacoli, con persone di ogni età e provenienza…

Ma.
Ma ora la vedo diversamente.
Anzi, mi sembra di vederne il principio.

È come se avessi individuato il primo passo, quello necessario, quello fondamentale: evitare di causare dolore. Non parlo di “fare del bene”… no, ho capito che questa intenzione è quantomeno sdrucciola e può nascondere insidie pericolosissime. Parlo invece di qualcosa di più semplice e meno eclatante: evitare di causare dolore.

Questo cambio di prospettiva può sembrare una cosa da niente ma cela un presupposto per me importante: in assenza di una grande attenzione provochiamo dolore. Siamo geneticamente portati a provocare dolore. Anche non volendo, sia chiaro. Non sto dicendo che siamo cattivi di natura, sto dicendo che siamo un potenziale di dolore per altri. E anche per noi stessi, s’intende.

La rivoluzione dei domatori, la chiamerei. Di chi ha coscienza del proprio potenziale e lo tiene a bada, gli mette le briglie. Qualche giorno fa, scherzando, ho detto alla mia compagna: “Il prossimo spettacolo lo intitoliamo SALVIAMO IL MONDO”.
“Da noi stessi”, ha aggiunto lei.
Esattamente questo.

Quante volte ho provato vergogna per aver causato dolore. Letteralmente vergogna. Una cosa senza scuse. Un’umiliazione senza scampo. Qualcosa di cui hai perso il controllo. E quando ti fermi, ti guardi e vedi quello che hai fatto, quasi non ti riconosci. Una vergogna tremenda. Ma, ecco, non basta soffrirne affinché non accada più. Può accadere in ogni istante. Basta una parola sbagliata, un gesto inconsulto, una mancanza, un’assenza.
D’altronde da distrazione a distruzione è un attimo.

“Eh ma tutto questo cosa c’entra con la pandemia e la rivoluzione?! Qui dobbiamo uscirne, dobbiamo fare, dobbiamo ripartire, ricostruire, trovare i colpevoli, giudicare, accusare, condannare! Dobbiamo rifare tutto: economia, sanità, stati, nazioni, Europa, Mondo! Non abbiamo mica tempo da perdere a stare attenti a non ferire un imbecille che spara cazzate o a non inquinare per salvare gli uccellini, madre natura e tutto il cucuzzaro!”

Già.
Non abbiamo tempo.
E il mio non è certo un manifesto politico convincente.
Lo so benissimo.
Ma, tant’è.

Non causare dolore.
A nessuno.
A niente.
Mettere le briglie alla parte distruttiva della nostra persona.
Non offendere.
Non colpire.
Non insultare.
Non oltraggiare.
Non calpestare.
Non uccidere.
Non… non… non…

Per la prima volta capisco l’incipit della maggior parte dei comandamenti: 8 su 10 iniziano con “Non”.
Sottintende che causare dolore è sempre ed eternamente possibile. Presuppone che il bene verso l’altro non significa, in definitiva, fare qualcosa per l’altro quanto piuttosto difendere l’altro da noi stessi.

Io la conosco una persona che cerca in tutti i modi di fare questo ed è la persona della quale direi, più di tutte, che fa del bene. Perché sta attenta a non fare del male. E la cosa ingloriosa, per lei e per le persone come lei, è di essere invisibili. Perché invisibile è la loro azione. Perché non sono di quelle persone che aiutano gli altri “in pompa-magna, tacchi a spillo e un beauty-case imitazione coccodrillo”, no: sono persone invisibili perché invisibile è il loro campo di battaglia. Sono rivoluzionarie di natura. Di quelle che non ricevono né onorificenze né premi. E magari neanche un grazie. Perché il loro intervento è prima. Perché la loro azione è a priori. Perché agiscono sempre. Perché ti salvano senza che tu lo sappia.
E questo, forse, è l’unico modo per salvare qualcuno.

E allora sì – in nome di queste persone, guerriere senza armi, rivoluzionarie senza bandiera, ribelli senza slogan -, sì:

SALVIAMO IL MONDO
da noi stessi

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