lenti a contatto

T’insegnano che devi andare veloce e superare gli altri.
T’insegnano la cosa più triste.
E più facile.
Difficile è andare piano e insieme.

T’insegnano la meta, l’obiettivo, il traguardo. Ovvero la fine di tutto. T’insegnano a vivere per la morte. Perché è così che la concepiscono: come una meta, un obiettivo, un traguardo. La fine di tutto. La temono così tanto che, sapendo di non poterla evitare, le vanno incontro alla velocità della luce.

Non mi sorprende che viviamo tempi di suicidio collettivo. Ben prima che una questione politica, economica o ideologica, è una questione esistenziale, forse spirituale. Il materiale risponde all’immateriale. L’arte l’ha sempre saputo, ora è riuscita a dimostrarlo perfino la scienza.

Perseguono la meta. Perseguono la morte. Perché la vita li mette in difficoltà. Così come la strada. Sanno benissimo come si fa a correre veloci da soli. Ma prova a chiedere loro di andare piano insieme ad altri. Non ce la faranno. Non riusciranno a prendere il passo degli altri, non resisteranno alla tentazione di andare più avanti, di accelerare il ritmo, di sbrigare la noiosa incombenza del camminare insieme. Si annoieranno, riterranno che è una cosa inutile, per tutto il tempo si chiederanno cosa c’è dopo.

Cosa c’è dopo.
Cosa c’è domani.
Cosa c’è tra dieci anni.

C’è la morte, penseranno. E la morte è la fine, sentenzieranno. Ed è una sentenza che non possono sopportare perché denuncia la loro totale impossibilità di esercitare il controllo. E allora, con un ultimo atto disperato, le andranno incontro alla velocità della luce. Questo, se non altro, darà loro la sensazione di esercitare un potere. Loro non muoiono, si suicidano. È diverso. Se non possono decidere il finale possono almeno deciderne i tempi. Ed è buffo perché non fanno altro che parlare di futuro, di protezione, di sicurezza. Che dolore vedere quante persone credono alle loro parole. Che dolore. E che amarezza constatare che non basta loro puntare al suicidio.

Personalmente ho sempre avuto enorme rispetto per i suicidi. Entrano in luoghi che a me non è dato conoscere. E, soprattutto, ci entrano da soli. Questi, invece, questi di oggi, questi che sono i capi ai quali si tributa ogni onore, questi non hanno il coraggio di entrarci da soli. Vogliono portarci tutti. Se non riescono più a dare un senso alla loro vita, se alla fine la meta è la morte e se la morte è la fine di tutto, allora che ci vadano tutti. E infatti, molti li seguono. Perché a tutti è stata insegnata la meta. Perché a pochi è stata insegnata la strada. Perché a tutti è stato promesso che, con la giusta quantità di soldi, si può essere dio a se stessi. Si può non aver bisogno di nessuno.

La paura della povertà è la paura di essere costretti a chiedere. E l’uomo che non deve chiedere mai questo non può sopportarlo. Piuttosto è meglio morire. Ma con in bocca le giuste parole d’ordine. Quelle che possono convincere più persone possibili a fare la stessa fine. Tremendo cortocircuito. Perché le parole d’ordine sono diametralmente opposte all’obiettivo finale. Dicono la parola “pace”, dicono la parola “rispetto”, dicono la parola “sicurezza”, dicono la parola “solidarietà”, dicono la parola “futuro”, dicono la parola “speranza”. Maschere. Mille maschere per un unico volto: il volto della morte.

Non si può rimproverare loro la profonda indifferenza verso gli altri. Perché è da quando sono nati che hanno detto loro “l’unico senso della vita è correre più forte degli altri ed arrivare primi”. Non hanno insegnato loro che il senso della vita lo puoi forse intuire camminando piano, insieme agli altri. Non hanno insegnato loro che correre per la meta è morire ad ogni passo, mentre camminare per camminare è rinascere ad ogni passo. Non potevano quindi che elaborare concetti folli come “il fine giustifica i mezzi”. Se il fine è la fine, anche i mezzi saranno la fine.

Sono potenti, possono fare tutto ciò che vogliono, ma non sanno stare con gli altri. Non sanno stare dentro la vita. Ne hanno paura perché la vita, a conti fatti, è la loro peggior nemica. Perché nessuno ha insegnato loro che l’eternità in quanto fuga dalla morte non esiste. Se ne esiste una, di eternità, si trova tra le maglie del tempo. È tra un passo e l’altro. Non è dopo il tempo ma dentro al tempo. Non dopo la meta ma durante la strada.

Non è dopo, è durante.
Non è domani, è ora.
Non è futura, è presente.

Ma loro il presente non sanno viverlo. Il presente, per esistere, dev’essere agganciato con fili invisibili. Li chiamano “relazioni”. Il presente non esiste di per sé, va continuamente creato. E per crearlo occorre lanciare fili invisibili. Verso gli altri, verso la natura, verso le cose. Il presente è collegamento. È andare piano. È stare vicini. È cercare di vedere oltre il visibile. E lo si può fare solo andando lenti. A contatto.

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