la violenza in me

Sabato 3 Giugno.
Torino: falso allarme bomba, 1.500 persone ferite.

Ciò che è accaduto a Torino dimostra che lo Stato Trasversale del Terrore ha sintetizzato l’essenza di ogni guerra: la paura. Suppongo che dal punto di vista di chi fomenta questa guerra (e sempre di più mi convinco che il quartier generale non sia situato in un punto circoscritto della terra ma sparso ovunque e a tutti i livelli, orizzontali e verticali, al di là di una fede piuttosto che di un’altra) quanto successo a Torino sia il massimo risultato sperato. La paura è un virus che porta all’auto-distruzione. Questo è successo ieri.
E mentre andava in atto, il comando generale festeggiava assistendo comodamente seduto in poltrona, servito da camerieri con guanti bianchi che, dopo il pasto, porgevano bacinelle d’acqua fresca e profumata per sciacquarsi le mani.

Lo stato di paura (nuovo nella forma ma identico nella sostanza a tutti quelli che l’hanno preceduto e, in definitiva, generato) non mira ad una strage quanto ad una specie di enorme suicidio di massa. Chi vuole eliminare sistematicamente degli esseri umani ha sempre una sorta di mania per la pulizia, religiosa o etnica che sia.
È per questo che assoldano disperati di ogni dove: per fare il lavoro sporco. E che abbiano le mani sporche è perfetto, mentre il cervello… no… quello va ripulito. Il lavaggio consiste nel promettere una vita migliore, che sia nel presente o nell’eternità. Dopodiché si siedono in poltrona. E assistono. Niente può ricondurre a loro. Loro sono il “bene”. Loro saranno i primi ad indignarsi. Loro hanno maschere di dolore e di cordoglio. Loro si sacrificheranno per noi e ingaggeranno guerre su guerre per sconfiggere il mostro che loro stessi hanno generato. Ovviamente mandando altri disperati in prima linea. Perché quando si tratta di mandare a morire, la manodopera non basta mai. E così il cerchio si chiude.

Io non sono certo un esperto di politica o di economia ma, per la miseria, ancora nessun politico o economista è riuscito a convincermi del contrario di ciò che mi pare fin troppo evidente.

Secondo me questa non è una guerra da vincere ma una guerra da disertare. Il solo mettersi in una predisposizione di vittoria o sconfitta significa già aver perso. Significa aver accettato a testa bassa il paradigma che vogliono imporci, ovvero l’odio verso l’altro e, a conti fatti, l’auto-distruzione. Perché è questo l’apice che può raggiungere l’intelligenza razionale lasciata sola al comando: il suicidio. Il dominio totale sulla vita. Il diventare Dio a se stessa e, in quanto divinità, dispensare vita e morte. E laddove io nutro un totale rispetto per chi si suicida a causa di un dolore insostenibile o di qualcosa che io non posso arrivare a comprendere, in maniera uguale e contraria non ho rispetto nei confronti di chi istiga al suicidio. Un conto è togliersi la propria vita, un conto è convincere qualcuno a togliersi la sua e, nell’atto stesso di farlo, a toglierla ad altri.

No, questa guerra non va combattuta, va disertata. E la prima cosa da fare è disinnescare tutte le mine che sono state piazzate e che sono pronte ad esplodere. Basta un passo falso. Come accade tutti i giorni. Ormai la violenza dilagante è sotto gli occhi di tutti.
La violenza delle guerre armate e degli attentati, certo, ma anche la violenza quotidiana, che sia in uno scambio di battute su un social e in una qualunque situazione della vita che degenera senza controllo e senza senso. Violenza, violenza, violenza ovunque e per qualunque motivo. Ed è esattamente in questo che stanno vincendo. Ed è questo ciò che dobbiamo disertare. Certo, non evitando il conflitto: ormai è ben chiaro a tutti che un certo tipo di “pacifismo” o di “buonismo” non sono altro che l’altro lato della medaglia della questione. Ovvero una fuga. No, non si tratta di fuggire ma di disertare, che è una cosa diversa. Quando si fugge lo si fa a testa bassa e schiena curva, quando si diserta lo si fa a testa alta e schiena dritta. Lo si fa fieri di ciò che si sta facendo. Non lo si fa per fuggire ma per costruire. Non è una reazione ma un’azione. Non lo si fa da vittime di un destino avverso ma da artefici di un possibile futuro. Come diceva Revelli riguardo gli zapatisti: “A un certo punto smisero di guardarsi attraverso gli occhi del mondo e cominciarono a guardare il mondo attraverso i loro occhi”.

Quando si diserta la prima domanda che ci si fa è: “Dove andiamo?” Essendo che questo tipo di guerra è ormai ovunque, io penso che non si debba andare in nessun altro luogo se non in quello in cui ci si trova. Disertare da dentro, se si può dire. Disinnescare la violenza quotidiana a qualunque altitudine e latitudine. Cercare, agognare, costruire, promuovere, favorire la pace.

Questa parola.
Pace.

Questa parola così abusata. Oltraggiata, direi. Tacito diceva “Fecero un deserto e lo chiamarono pace”. L’uso della parola “pace” per parlare di guerra è un’aberrazione linguistica che porta ad aberrazioni della mente. Fino ad arrivare alla nota espressione “Guerra umanitaria”. Follia pura.

E dall’altra parte, la pace di quelli che fingono una sorta di candido ed equilibrato distaccato dalle cose. Quelli che guardano dall’alto le miserie umane. Quelli che fanno raccolte fondi per la pace nel mondo salvo poi dar fondo alla loro pretesa che il mondo non venga a scomodarli difendendosi dietro ad un muro che nessuno può oltrepassare perché “va bene la pace nel mondo, va bene tutto, ma se entri a casa mia, io… candidamente, amorevolmente, pacificamente… ti sparo”.

Io non so quale pace vada trovata. L’unica sensazione è che debba essere una pace vera, concreta. Ovvero lottata. Sicuramente una pace che sia aspirazione alla giustizia sociale. Una pace che si trova non già al di fuori del conflitto ma, in qualche modo, dentro il conflitto stesso. Un’oasi nel cuore del deserto. Una diserzione a testa alta. Un cambiamento profondo. Umano. Antropologico. Insomma, sì, una rivoluzione. Ma più intesa come “Il tempo che l’astro, visto dal centro di moto, impiega per ritornare nella stessa posizione tra le stelle”. Tutto questo nella speranza che un giorno, un Tacito del futuro, scriverà: “Fecero una diserzione e la chiamarono pace”.

Ed ora, dopo tutte queste parole, dopo tutte queste “belle parole”, chiudo con un atto di vergogna. Perché appena dopo aver finito di scrivere quanto sopra, ho avuto un moto di rabbia contro mio figlio. Al di là del fatto che io avessi o meno ragione constato,
per l’ennesima volta e con grande dolore, che la violenza è in me. Anzitutto in me.

È bastato un passo falso. Come accade tutti i giorni.

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2 thoughts on “la violenza in me

  1. La violenza é in tutti. Ma non tutti si lasciano dominare, anche perché per natura é un istinto (credo) legato quanto meno alla auto protezione. Quello che hai scritto é bellissimo. Il mio timore, invece, è quello di lasciar vincere in me la paura, o il dolore; o, peggio di tutto, l’abitudine un po’ indifferente a quel che acccade, come un fatalismo ignorante.

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