Sono stato in ospedale.
Ho accompagnato mio figlio per una visita.
Non farò il nome dell’ospedale.
A scanso di equivoci dirò solo che non è quello della città in cui vivo.
Le dottoresse che l’hanno visitato sono state gentilissime. Finita la visita siamo andati al CUP per pagare. Prima di entrare nella sala c’era una segnaletica strana, non si capiva bene cosa bisognasse fare. Ad ogni modo siamo entrati. Nella sala eravamo in pochi. Alcuni di noi stavano in piedi. Ad un certo punto la donna che sta allo sportello ci ha detto di sederci. Con quel tono per cui ti sembra di ripiombare alle elementari, con quella maestra che era solita usare le mani. Ci sediamo. Dopo cinque minuti entra, alla velocità della luce, un uomo vestito di arancione. Presumo uno di quelli che lavora nelle ambulanze. Ci dice di alzarci e di uscire. Con quel tono che ti sembra di ripiombare alle elementari, con quel preside che appena entrava dovevi scattare in piedi. Obietto timidamente che ci hanno appena detto di sederci. Comincia subito ad alterarsi. Dice che dobbiamo uscire, che dobbiamo aspettare fuori. Alcuni escono, io mi alzo dalla sedia, un signore con il braccio rotto gli chiede perché deve alzarsi. Apriti cielo. L’uomo arancione gli si fa sotto sbraitando che deve uscire. Il signore con il braccio rotto lo invita a calmarsi. E a tirare su la mascherina, visto che la teneva abbassata. L’uomo arancione lo minaccia. Per la precisione gli dice “ti aspetto fuori!” Si intromette un vecchio che viene trattato malissimo nonostante le sue pacate proteste “non faccia così… lei è dell’ospedale…” Niente. L’arancione continua a sbraitare, ad uscire per caricarsi a molla e poi rientrare con un nuovo set d’ingiurie. Io non esco e sto lì nel timore che la situazione degeneri ma, in breve tempo, capisco che l’arancione è uno di quei cani che abbaia. Punto.
Insomma, la violenza.
Quella che ti stringe lo stomaco. Quella che entra in risonanza con un accumulo di rabbia e frustrazione. Quella che in un attimo si può trasformare in tragedia. Perché senti chiaramente che è fuori controllo e che non ha alcuna attinenza con la realtà di quel momento. Non è una rabbia legata al contingente: è una rabbia sedimentata. E basta davvero un niente per farla esplodere e per renderti cieco. Perché solo un cieco può minacciare un signore con il braccio rotto.
Di chi è la colpa?
Di noi che eravamo nella sala perché non era affatto chiara la segnaletica nel corridoio?
Di chi ha messo la segnaletica nel corridoio?
Del signore con il braccio rotto che sarebbe dovuto correre fuori?
Dell’uomo arancione?
No, la colpa è del governo.
La colpa è di tutti quei politici che da due anni stanno utilizzando un linguaggio schifosamente violento. La colpa è della loro totale incapacità comunicativa (a voler essere ottimisti) o della loro lucida intenzione di creare conflitti. La colpa è della narrazione di tutta questa vicenda. Narrazione folle, folle, folle. La colpa è di chi continua ad imporre un capro espiatorio da colpire. Il nemico di turno. L’uomo nero di una favola che non è una favola ma una realtà divenuta insostenibile e angosciante. La colpa è di tutti quei giornalisti della tv, della carta stampata e del web che, pur di attirare clienti, scrivono oscenità di ogni sorta. In particolare la colpa è di chi si occupa dei titoli. Titoli per i quali bisognerebbe creare un apposito reato perché sono letteralmente un’istigazione alla violenza. La colpa è di tutti quei medici e scienziati che s’intromettono in questioni politiche con un vocabolario che, in confronto, i discorsi da bar sono estratti di tesi di laurea. La colpa è della televisione e dei suoi talk show che ormai vanno classificati come pornografia di bassa lega.
E attenzione perché tutti questi colpevoli sono gli stessi che, quando c’è una qualche protesta in piazza, urlano allo scandalo e s’indignano per la violenza. Ebbene. Ipocriti. Nient’altro che squallidi e miseri ipocriti. Riempi una persona di violenza quotidiana – quella fatta di parole e di immagini, perché quella è concessa, è legale, anzi: è auspicabile -, violenza sottile perché mentale, violenza immessa nel mercato 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno… riempi una persona di tutto questo e poi, qualora commetta un atto di ribellione, ti scandalizzi facendo tintinnare tutta la tua educazione, la tua cultura, la tua indignazione. E passi pure per una persona perbene. D’altronde tu hai solo parlato. Tu hai solo mostrato delle immagini. L’altro, invece… “Beh, una bestia! Guardalo là mentre sfascia una vetrina! Scandalo! Queste cose non si devono più ripetere! Attenti che le vetrine sono il bene più prezioso che abbiamo! Ci teniamo così tanto che nel 2001, quando a Genova facemmo fuori un ragazzo, poi nei tg mandammo a ruota immagini di gentaglia che sfasciava vetrine. Cosicché la gente potesse serenamente pensare «Sì certo, è morto… però guarda quello che hanno combinato! Non dico che se l’è meritato però…»” (Posto che, ormai, è piuttosto chiaro che alcuni di quelli che sfasciano le vetrine li mandano proprio quelli che poi li usano per condannare chi manifesta pacificamente. Vecchia, triste storia.)
Ed ora, fino a che punto arriveremo?
Ah no pardon… ci siamo già arrivati.
Siamo arrivati al punto in cui alcune persone si augurano la morte di altre pur di dimostrare l’ottima scelta che hanno fatto schierandosi da una parte piuttosto che dall’altra.
Ma ce ne rendiamo conto o la favola dell’uomo nero ci ha fatto cadere nel più agghiacciante dei sonni?!
In quello che ho visto stamattina sarebbe facilissimo dire che il colpevole è l’uomo arancione. Ma no. Perché ho un cervello e, se non spiace, lo uso. Quell’uomo lì… che vita starà facendo da due anni? E chi lavora negli ospedali, che vita sta facendo? E cosa hanno ottenuto tutte queste persone, oltre l’ormai stucchevole e vomitevole appellativo di “eroi”? E degli ospedali, da due anni a questa a parte, che ne è stato? Ditemelo, vi prego. Io non sono né un politico né il ministro della sanità né niente di nessuno ma, santo cielo, in una situazione del genere la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di rendere immediatamente migliori il lavoro e la vita di tutte le persone che lavorano negli ospedali. Questo avrei fatto. Macché. Niente di tutto questo. Oppure, se invece è stato fatto, beh… è stato fatto malissimo. Perché l’uomo arancione, stamattina, aveva la faccia sfinita. E non a caso, ad un certo punto, ha urlato “e poi se vi ammalate devo correre io salvarvi!” L’ha detto con rabbia. Ma l’altra rabbia. Quella impercettibilmente incrinata dal pianto.
Infine colpevoli siamo tutti noi ogni volta che cediamo alla violenza. Questa massa informa dei social è diventato una specie di mostro che, sempre più spesso, mostra i denti.
Mi chiedo.
Siamo a casa. Seduti. Con un telefono in mano. Nessuno ci sta minacciando con una pistola alla testa. E allora perché non usarla, la testa? E quale uso migliore può esserne fatto se non quello di farle addomesticare gli istinti più bassi? Lo so, lo so benissimo che quegli istinti sono stati pompati all’inverosimile da tutti i colpevoli di cui sopra. E quindi? Schiavi della loro violenza e schiavi pure della nostra? Ma perché? Perché? E poi… per cosa? Una volta che hai insultato qualcuno che la pensa diversamente da te, cos’hai ottenuto? Ti senti meglio? Ti sei sfogato? Ti sembra di aver vinto? E soprattutto: non ti sembra che tutti questi bisogni siano infantili? E non ti sembra infantile il modo di soddisfarli?
Detto ciò non voglio assolutamente fare confusione.
Sebbene colpevoli possiamo diventarlo noi stessi in qualsiasi momento, colpevoli sono soprattutto loro. Quelli che governano, quelli che hanno voce in capitolo, quelli che hanno un grande seguito, quelli che hanno strumenti quali televisione e giornali, quelli che sono stati investiti di autorità. O che si sono auto-investiti di autorità. Colpevoli e ipocriti che camminano allegramente sul filo del disastro che essi stessi hanno creato e che stanno alimentando.
Un disastro che ha un nome preciso: guerra.
Qui siamo.
Ma non di quelle convenzionali – posto il fatto che associare la parola “convenzionale” alla parola “guerra” mi ha fatto sempre rabbrividire – no, questa è una guerra “intima”. A tal punto che ce la portiamo appresso. Anzi, dentro. Una guerra parcellizzata.
Tra amici, tra parenti, nei gruppi, in famiglia. In noi stessi.
“Ti chiedono di prendere posizione all’interno della grande disputa, in merito al tema caldo di cui tutti parlano. Ti fanno una domanda e dalla tua risposta si capirà da che parte stai. Ma è un tranello perché già nell’atto di rispondere sarai sconfitto: rispondendo accetterai implicitamente che l’umanità è divisa. Che è fatta di schieramenti nemici. Non importa a quale schieramento tu appartenga: quello che conta è che tu ti schieri. Ti spingono nel cuore del cuore dell’Impero: il conflitto. Perché è di conflitto che si nutrono gli Imperi, ben prima che di denaro. Se qualcuno riuscisse a sciogliere il conflitto e a portare la pace, tutto crollerebbe. Basterebbero tre giorni.” (brano tratto dal mio ultimo spettacolo)
Nel delirio totale, nei dubbi e nelle incertezze continui, questo volgare trucchetto di scaricare il conflitto in basso è l’unica cosa che vedo molto chiaramente. Così come vedo che puoi avere tutte le ragioni di questo mondo ma se per sostenerle entri in guerra, hai perso. Hai già perso. Hai perso l’unica, seppur misera, possibilità che abbiamo: fare diversamente. E “fare” diversamente è “essere” diversamente. Non c’è altra possibilità. O vogliamo ancora credere alla favoletta per cui torneremo alla normalità? A quella normalità che ci ha consegnati mani e piedi al disastro che stiamo vivendo?
Cosa fare? Non lo so. Ma, nel dubbio, proporrei di usare la testa. E non per generare ulteriore violenza quanto piuttosto per mettere le briglie e addomesticare questa rabbia, questa frustrazione accumulata. Usare la testa. Con intelligenza. E, per i più arditi, con amore.
Dopodiché salterà fuori l’ennesima persona che mi darà del buonista. Buonista. Ma non siete stanchi di etichettare le persone? Non siete mortalmente stanchi di stare al gioco di chi genera conflitti? Non è chiaro che per innestare un conflitto la prima cosa da fare è creare un nemico e la seconda è etichettarlo così da renderlo simbolico? E, allo stesso modo, rendere simbolico il salvatore. Dio mio. Mi sembra di essere ai tempi di Gesù, quando tutti aspettavano un messia! E ovviamente si aspettavano un messia potente figlio di un dio onnipotente che avrebbe sbaragliato i nemici con la forza. L’uomo forte. L’uomo solo al comando. Santo cielo. Non se ne può più! Ma non è evidente? Non cogliete la stessa identica dinamica che ha mosso gli innumerevoli conflitti del passato? Non vi sembra che la storia sia sempre la stessa ma semplicemente calata in un altro tempo, con altre parole d’ordine, ma pur sempre lei, l’eterna-eterna guerra scaricata in basso da chi sta in alto? Non siete stanchi di combattere guerre che, in verità, non avete mai voluto?
Sono tante le parole che affollano la mia mente in questo periodo. Ma oggi, oggi che mi è chiarissimo che ci stanno imponendo lo scontro pur di salvarsi la faccia, oggi una parola spicca sulle altre…
Diserzione.
https://www.youtube.com/watch?v=z5pz81k5cbg
