mal d’artista

In teoria sono un artista.
Nel senso che è così che mi chiamano.
Ho pure l’attestato di qualificazione professionale, pensa.
Faccio teatro.
Sono sostanzialmente un attore ma scrivo anche i testi che porto in scena. E poi tengo laboratori e ho curato qualche regia.
Quindi direi che, per la società, sono un artista.

Ma non è vero.
Per me non è vero.

Perché tengo costantemente presenti alcuni artisti e pensare di essere affiancato a loro mi fa sentire come uno di quelli che s’imbucano ai matrimoni. Oppure come quella volta che, con due miei carissimi amici, abbiamo ben pensato di passare il 31 Dicembre in Austria e, con un escamotage alla Charlie Chaplin, siamo riusciti ad entrare al Ballo di Capodanno di Vienna. Quello ballo al quale, per partecipare, ti devi prenotare un paio di generazioni prima.

Ricordo esattamente come mi guardavano, quelli che si erano prenotati un paio di generazioni prima. Ricordo pure quello che pensavano. Sì perché lo sentivo distintamente. “Ma guarda questo che si presenta con uno smoking da quattro soldi (l’avevo comprato in un mercatino dell’usato) e perfino estivo!”

Ricordo tutta quella ricchezza. Talmente esagerata che il mio giudizio si congelò. Anche per il freddo, s’intende. Non potevo giudicare in alcun modo perché mi trovavo in un altro mondo.
In un altro pianeta.

Ecco, è così che mi sento quando vengo chiamato “artista”.
Mi sembra di essere un imbucato. Con un abito usato. Dopodiché ammetto che a volte mi capita di leggere/vedere/ascoltare opere di persone considerate a tutti gli effetti artisti e ammetto che, in quei frangenti, un “no va beh se questo è un artista io voglio l’Oscar seduta stante!” mi scappa. Ma, ecco, capita raramente.

Ciò non toglie il fatto che il mio modo di pensare e di guardare il mondo sia, effettivamente, particolare. Mi rendo benissimo conto di avere dei sistemi di riferimento piuttosto bizzarri. E finché li utilizzo per recitare o per scrivere uno spettacolo o per curare una regia, tutto ok. Ma se, niente niente, li utilizzo per esprimere il mio pensiero riguardo la società o l’attualità… cambia tutto. Probabilmente alcuni pensano “Ma smettila! Lascia perdere! Fai l’attore che quello ti viene bene. Lascia fare queste cose a noi grandi.”

E devo essere sincero: non mi offendo. Perché a volte lo penso io stesso. Sia riguardo me stesso, sia riguardo alcune esternazioni di artisti che ammiro. Magari ci metto minor acrimonia, ma ogni tanto anch’io lo penso. Qualcosa tipo “No ti prego, lascia perdere. Il tuo linguaggio non è adatto a tutto questo. A tutta questa distruzione del linguaggio stesso. Restane fuori. Ti prego: salvati. E soprattutto: salvami! Voglio beneficiare della tua arte e non pensare ad altro. Sarebbe orribile se, osservando o ascoltando una tua opera, continuasse a tornarmi in mente quell’infelice post che hai scritto!”

Sono sicuro che, pur non essendo un artista, la stessa cosa capiti nei miei confronti. Ne sono sicuro perché mi è stato pure detto. Sia da persone delle quali non m’interessa l’opinione, sia invece da chi stimo profondamente. Ma, al di là di tutto, come si dice oggi: ci sta. Perché il mio strumento non è la parola scritta, tantomeno quella scritta nei social. Il mio strumento è la parola detta. Ad un certo punto del mio ultimo spettacolo – che sto ancora “scrivendo” – dico:

“La parola è solo una parte del dialogo. Oltre la parola ci sono il tempo e il luogo per dirla, c’è il modo di dirla, ci sono lo sguardo, il tono, il ritmo, il volume, il corpo, c’è l’invisibile che è ciò che non si può dire con le parole, c’è la serietà o l’allegrezza, il sorriso o la durezza. E poi, sopra a tutto, c’è la persona a cui la dici. L’altro. Il limite. Il setaccio. La parola scritta può prendere in considerazione infinite variabili ma non può chiedere all’altro se essere detta e come essere detta. Questa è la differenza tra la parola scritta e la parola detta: la prima la dirige chi scrive, la seconda la dirige chi ascolta.”

Bene, ora che ho finito con l’introduzione posso parlare “artisticamente” di quello che m’interessa: la salute.

“La salute è tutto!”

Ecco, quello che voglio dire è che non condivido questa affermazione. Il che non fa di me uno che non si rende conto di ciò che dice, non foss’altro per il fatto che nella mia vita sono stato parecchio male, soprattutto in un determinato periodo, e ricordo benissimo che avrei dato tutto pur di stare bene. Per capirci, diciamo che non sono un new age vestito di bianco con un sorriso ebete stampato in faccia che ad una persona malata di tumore va a dire: “Sei malato? Come sei fortunato fratello! La malattia è un’opportunità!” Riguardo tale argomento ci ho speso non poche parole all’interno del mio penultimo spettacolo.

Nonostante questo penso che la salute non sia tutto.
Oppure sì, ma nella definizione che ne ha dato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1948: “Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplicemente assenza di malattia o infermità.”

Quello che penso è che si può essere sanissimi ma… morti. Possiamo essere in piena salute, mangiare solo alghe che si suicidano per il nostro bene, andare il lunedì, il mercoledì e il venerdì in palestra, il martedì, il giovedì e il sabato in piscina, la domenica a passeggiare nudi tra i boschi abbracciando muschi e licheni, intraprendere una guerra santa contro l’olio di palma… ma poi essere morti.

Vorrei dire quella che forse è un’ovvietà ma che, a quanto pare, va ricordata: la salute è una cosa, la vita è un’altra cosa. Tra l’altro devo questa osservazione non a mie personali elucubrazioni ma ad un amico.

Penso.
Penso a centinaia di esempi che abbiamo. A donne e uomini che, nella storia, non hanno certo messo la salute in cima a tutto. Anzi, l’hanno quasi sfidata. Penso ad artisti, politici, rivoluzionari, santi. Penso ad esempio a San Francesco e a Che Guevara.
O ad Etty Hillesum, Michelangelo, Virginia Woolf, Van Gogh…

“Ma cosa c’entra il tuo essere o non essere artista con la salute, con la malattia e con tutto il resto?”

C’entra perché nel mio lavoro faccio spesso esperienza di momenti in cui la malattia passa in secondo piano rispetto ad altro. Anzitutto basti pensare che, in più di vent’anni di lavoro, solo una volta non sono andato in scena perché stavo male. E non perché abbia una salute di ferro ma perché il teatro mi ha insegnato una cosa:
l’offerta di te stesso spesso ti guarisce.

Questa è l’esperienza che ho vissuto. Questo è successo tutte le volte che, per un qualche problema di salute, mai più sarei salito sul palco e invece, sempre e immancabilmente, il fatto di non aver messo in primo piano la salute… mi ha guarito. Non sto ovviamente dicendo che sono andato in scena con il mal di gola e alla fine non lo avevo più. Non sto parlando di magia. Però era più sopportabile, questo sì. E non sto dicendo che se durante uno spettacolo sono stato colto da un attacco di panico, poi non ne ho più sofferto. Dico però che in seguito mi sono sembrati più affrontabili. Posso però dire di essere andato in scena con la febbre e, una volta a casa, ho constatato di non averla più. Oppure posso dire di quel dolore al polso per una distorsione che, durante lo spettacolo, non faceva più male.

Da ciò, dal mio modo di pensare da artista/non-artista, deduco che la salute non è tutto. Più precisamente: non tutta la salute è salute fisica, come dice l’OMS. E anche che, a volte, piuttosto che entrare in difesa – ovvero farsi guidare dalla paura -, è meglio giocare in attacco. Ovvero agire. O meglio: decentrarsi e pensare ad altro.
Ad altri.

Qui sta il punto di contatto con il lavoro che faccio. Perché in qualunque modo si consideri il teatro è innegabile che si tratti di un rituale che contempla l’offerta di se stessi ad altri.
E ad altro.

Solo così sono riuscito a spiegarmi, ad esempio, la vita di San Francesco. È su di lui che ho fatto il mio penultimo spettacolo.
Dire che fosse malato è dire veramente poco. Francesco ha vissuto la maggior parte della vita vessato dalla malattia. Eppure. Eppure.
Oppure penso al Che che ha affrontato la sua asma facendo delle cose impensabili per uno nelle sue condizioni. Senza poi citare quello che ha potuto produrre Etty Hillesum dal cuore di un campo di concentramento; dal cuore dell’inferno.

Da cosa erano dunque guidati?
Dalla vita, direi.
Dalla vita intesa come esistenza limitata e piena di problemi, anche di salute. Immagino pensassero all’esistenza come ad una cosa altamente imperfetta e, al contempo, che questa sua imperfezione non dovesse essere il problema di cui occuparsi. Anzi, per la precisione, che non occorresse affatto occuparsene. E poi, non so, magari si sono resi conto che quando facevano ciò per cui si sentivano chiamati si sentivano meglio. O forse, semplicemente, sentivano di meno ciò che li faceva soffrire.

Parlo di loro per parlare di qualcuno che un po’ tutti possiamo conoscere. Ma potrei benissimo parlare di persone che conosco e che, pur alle prese con malattie o limiti enormi, producono una quantità di vita impensabile.

In questo momento, ad esempio, me ne viene in mente una che per me è un esempio costante. La sua vita è una continua offerta di sé. Nel giro di cinque minuti ti fa dimenticare completamente le proprie difficoltà. Perché il fuoco della sua attenzione non è su di sé ma su di te. Una persona che potrebbe dirti, in tutta tranquillità: “Ma di cosa ti lamenti? Hai problemi ben minori dei miei!” E invece li tratta con tutto rispetto, i tuoi problemi, di qualunque ordine di grandezza siano. Ecco, questa persona che, secondo la logica corrente, dovrebbe solo chiudersi e farsi aiutare… è sempre aperta e sempre nell’atto di ascoltare gli altri.

Secondo la mia visione bizzarra della vita ha ribaltato il concetto di “ferita”. Ovvero non uno strappo da ricucire ma una fessura attraverso la quale entrare in relazione con gli altri. E vi assicuro che produce attorno a se una quantità di vita impressionante.

E allora, come possiamo confondere i termini “salute” e “vita”?
Come possiamo pensare che siano la stessa cosa se, a volte, il loro rapporto è addirittura inversamente proporzionale?
Io penso che siano due parole importantissime e che entrambe vadano massimamente rispettate.
Ma non sono la stessa cosa.

Quindi no, non penso “La salute è tutto!”
Penso invece: La vita è tutto.




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